Combattere l’odio puntando su ciò che ci rende simili agli altri

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Foto: Unsplash.com

Mai avrei pensato che nel mio paese sarebbe comparsa su una porta la scritta «Juden hier», «Qui c’è un ebreo», come nelle città tedesche durante il nazismo. La porta è quella dell’abitazione di Aldo Rolfi, figlio di Lidia, partigiana internata a Ravensbruck. La mia indignazione, l’incredulità, la rabbia trovano purtroppo conferma “statistica” nelle ultime rilevazioni della Mappa dell’Intolleranza, che parlano di un’esplosione di antisemitismo.

All’odio antisemita si aggiunge un incremento dell’odio misogino. “Ebrea”, e per giunta “donna. Del resto, il trattamento mediatico (e non solo) riservato a Liliana Segre ci doveva aprire gli occhi su questa Italia e, purtroppo, su questo mondo. Rimangono “stabilmente” preoccupanti e vergognosi i dati che testimoniano l’hate speech nei confronti delle persone omosessuali, disabili, migranti o di religione islamica. Quanto più forte è la luce con cui crediamo di illuminare la nostra identità, più scura è l’ombra che proiettiamo sugli altri. Al punto che la nostra presunta “purezza” (la “purezza” della razza sempre a braccetto con la “virilità” pronta a violentare, fisicamente o verbalmente, le donne) ha bisogno, per sostenersi, di disprezzare l’altro, di trasformarlo in “sporcizia”. Di degradarlo fino a rappresentarlo come un oggetto senza valore di cui liberarsi, una cosa non più umana. 

È un rischio della scissione, meccanismo psichico molto primitivo: maschio vs femmina, ariano vs ebreo, italiano vs straniero, bianco vs nero, ricco vs povero, eterosessuale vs omosessuale. Se uno è sopra l’altro è sotto. Quanto più forte è la paura, tanto più rigida è l’identità. «Ci vuole poco», spiega l’antropologo Francesco Remotti, «perché questa paura si traduca in un’ossessione; e ci vuole poco perché questa ossessione ispiri azioni e politiche di respingimento e, se non basta, di annientamento». Si tratta di un funzionamento difensivo, in parte inconscio in parte cognitivamente rinforzato, che non riguarda solo l’individuo, ma gruppi di persone o nazioni intere. 

Lo possiamo spiegare con la “teoria dell’identità sociale” di Tajfel e Turner che indaga le dinamiche ingroup vs outgroup: sentimenti positivi e trattamenti speciali per il proprio gruppo e sentimenti negativi e trattamenti punitivi per il gruppo altrui. Il miglior modo di rispondere, anche nella vita di tutti i giorni, è soffermarsi su ciò che ci rende simili agli altri, non su quello che ci rende differenti. E di capire, una volta per tutte, che la convivenza con gli altri nasce dalla capacità di convivere con se stessi. E che la capacità di convivere con se stessi nasce dalla consapevolezza che siamo mondi psichici complessi, articolati, costruiti attorno alla relazione con l’altro. Mai tutti d’un pezzo. Arcipelaghi connessi, non continenti arroccati.

Vittorio Lingiardi da Voxdiritti.it

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