Banca mondiale, grandi opere e diritti umani

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All’estero ha avuto una eco notevole ed è stata coperta in maniera più che adeguata dagli organi di stampa, mentre in Italia in pochissimi l’hanno ripresa. Ed è un peccato, perché l’inchiesta condotta dall’International Consortium of Investigative Journalists (ICIJ) in collaborazione con diverse testate internazionali ha squarciato definitivamente il velo sulle politiche e sulle azioni condotte dalla principale istituzione di sviluppo del Pianeta, la Banca mondiale.

C’è un dato molto inquietante che sintetizza al meglio questo sillogismo: a causa di progetti finanziati e sostenuti dai banchieri di Washington, fra il 2003 e il 2014 oltre 3,4 milioni di persone in tutto il mondo sono stati “sfollati o penalizzati dal punto di vista economico”. Quasi tre milioni sono asiatici, circa 400mila africani. La ricerca ha preso in esame 972 progetti in 124 paesi.L’estremo paradosso è che la World Bank per espressa missione statutaria dovrebbe cancellare la povertà dall’orbe terracqueo, non aumentarla. Nel meticoloso studio condotto da una cinquantina di giornalisti di 21 paesi nel corso di un anno, sia sul campo (in una dozzina di paesi) che scartabellando i documenti ufficiali, si certifica anche il mancato rispetto delle stesse linee guida e normative interne della Banca mondiale.

Più nel dettaglio, il ramo dell’istituzione che presta ai privati, l’International Finance Corporation, è accusato di aver concesso denaro a compagnie coinvolte in gravi ed evidenti violazioni dei diritti umani, addirittura continuando a erogare fondi anche quando il “problema” era emerso sia a livello interno che pubblico. Uno dei casi più lampanti e seri è quello del reinsediamento forzato della comunità etiope degli Anouk nella regione occidentale di Gambella, nei pressi del confine con il Sud Sudan. Varie testimonianze raccolte dall’organo di indagine interna della World Bank, l’Inspection Panel, denunciano come i soldi della Banca siano stati impiegati per portare avanti il processo di sfollamento.

I membri della comunità Anuak hanno dichiarato che nel 2011 le forze dell’ordine avrebbero percosso, stuprato e ucciso alcuni indigeni che si rifiutavano di lasciare le loro abitazioni. La Banca Mondiale ha proseguito a sostenere il cosiddetto progetto socio-culturale anche anni dopo che le prove continuavano a emergere. Lo scorso novembre è stato pubblicato il rapporto dell’Inspection Panel in cui si prendeva in esame la questione, ma all’inizio dello scorso marzo i vertici dell’istituzione si sono di fatto auto-assolti sul caso Gambella.

“Spesso non c’è stato alcun intento da parte dei governi di rispettare le regole, così come da parte della Banca c’era ben poca voglia di farle applicare”, ha dichiarato Navin Rai, ex funzionario dell’istituzione, che dal 2000 al 2012 si è occupato proprio del controllo sull’implementazione delle linee guida riguardanti le popolazioni indigene. Di storie come quelle di Gambella ne sono emerse anche altre, raccontate in inglese sul sito dell’International Consortium of Investigative Journalists.

Il presidente della Banca mondiale, Jim Yong Kim, ha recitato solo un parziale mea-culpa. Ha sì ammesso che tanti progetti finanziati dal board che presiede hanno effetti negativi sulle comunità locali, prendendosi l’impegno di “fare meglio”, ma ha anche sottolineato come spesso, in “nome dello sviluppo”, il reinsediamento sia inevitabile. Certo, vanno tutelate e compensate le persone, ma se serve per realizzare una grande infrastruttura, sia essa una diga o un oleodotto, non ci si può tirare indietro; questa la teoria di Kim. È proprio il mantra delle mega infrastrutture a preoccupare di più la società civile internazionale, che teme un ulteriore annacquamento delle politiche di protezione della Banca.

Politiche che, come visto, sono spesso ignorate. A tutto svantaggio della lotta alla povertà.

Da Recommon.org

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