Ancora lunga la lotta all'infibulazione

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Infibulazione. Deriva da ‘fibula’, in latino ‘spilla’. Il termine descrive in modo spietato, la radicale alterazione che subiscono gli organi genitali femminili. La vagina viene parzialmente chiusa attraverso una sutura che lascia solo un piccolo passaggio per l’urina e il sangue mestruale. A questo si aggiunge l’asportazione di clitoride, piccole labbra e parte delle grandi labbra vaginali.

Ogni anno, due milioni di piccole vittime vanno ad aggiungersi ai 135 milioni di donne che vivono con il marchio di questa ferita. Sudan, Somalia, Mali, Egitto, Guinea, Gibuti, Eritrea e Sierra Leone. L’Africa sub-sahariana e occidentale sono le aree di maggior diffusione.

La Nigeria è attualmente il primo stato africano a bandire l’infibulazione. Il disegno di legge, che criminalizza la pratica nel Paese, approvato dall’Assemblea Nazionale, parte dell’ultimo mandato del presidente uscente Goodluck Jonathan, è ancora in attesa di convalida. Si stima che risparmierà oltre 40 milioni di donne e ragazze dall’usanza culturale della mutilazione genitale. Ma le leggi sono lì, solo sulla carta, e le pene non scoraggiano anni di tradizioni.

Aliyaa, nel giorno del suo matrimonio, a Khartoum, ci racconta “Questa notte, la madre di mio marito con un piccolo coltello mi ha tagliata. Mi vergogno ma lei mi ha detto che adesso finalmente posso avere dei figli”. Dolorante cerca di camminare e sorridere agli inviatati. Cerca di nascondere i segni della sofferenza sul suo viso mentre la riempiono di foto. Le amiche la sorreggono, la sorella del marito non le guarda nemmeno gli occhi.

La tradizione impone alle donne della famiglia dello sposo una profonda ispezione della futura moglie. Trovare l’infibulazione intatta significa che la donna è ‘perbene’. L’allargamento dell’apertura vaginale, per permettere rapporti sessuali, di solito avviene per mano della donna più anziana della famiglia dello sposo, la sera prima del matrimonio. Procedimento desolante, spesso condotto senza alcun anestetico né antidolorifico.

Estendere l’apertura vaginale non è affatto sufficiente per consentire il parto. Asma, una giovane ragazza somala, ci racconta la sua prima gravidanza. “Ho avuto dolore quando sono stata con mio marito. Il mio bambino è arrivato subito, grazie a Dio. Un giorno il mio vestito si è bagnato e mia madre mi disse che Khaliif stava per nascere. Mia nonna prese un rasoio e mi tagliò. Non so se quel sangue che vedevo proveniva dal taglio o da mio figlio. Poi non ricordo più niente”.

Le storie di Aliyaa e di Asma sono simili. Figlie della stessa terra. Figlie della stessa cultura. “Sono stata cucita quando avevo sette anni. Potevo sentire il dolore della lama e il morso dell’ago usato per non farmi più sanguinare”, continua Asma. Abbassa lo sguardo e stringe a se Khaliif.

Secondo i dati dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, ogni giorno 8000 donne, bambine e ragazze subiscono mutilazioni genitali. Pratiche lontane da Islam, Cristianesimo o qualsiasi altra religione.

Nelle calde manyatte kenyane, una delle anziane donne del villaggio ha appena finito di ‘tagliare’ una bimba di pochi anni. Tre, forse quattro. Non conosce le parole tecniche della procedura. Non sa che a un nome corrisponde una parte anatomica dell’apparato genitale della bambina. Ma ha eseguito alla perfezione tagli, asportazioni e suture. Sotto l’ombra di un’acacia, parlava soddisfatta, con le altre donne, e sorseggiava lentamente un chai, tè, latte e qualche spezia. La bambina gridava sfinita dallo spasimo. La donna ci racconta che adesso “Kaweria troverà un marito. Così è pulita. Adesso si stancherà e si addormenterà. Ho messo una pasta di erbe e ho legato gambe e caviglie insieme, così la ferita guarisce presto”.

Federica Iezzi da Nena-news.it

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