Un macello di acqua

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Pochi di noi sono consapevoli di quanto le risorse idriche vengano messe a dura prova dalle pratiche dell’allevamento. In totale, l’agricoltura consuma l’85 per centro di tutte le risorse d’acqua dolce statunitensi, principalmente per produrre cibi animali. La produzione giornaliera di cibo per un essere umano onnivoro richiede più di 15 mila litri d’acqua, mentre per un vegano ne bastano meno di 1.100”. Le parole sono quelle di WIll Tuttle nel libro Cibo per la pace, ma sono dati a cui, con una ricerca anche superficiale, non è difficile trovare conferma, e non solo per quanto riguarda il suolo americano. Qualche paragrafo più avanti Tuttle continua: “Gli idrogeologi dell’Università della California hanno stimato che mentre l’acquisto di mezzo chilo di lattuga, pomodori, patate o frumento della California richiede solo 90 litri d’acqua circa, quello di mezzo chilo di manzo ne richiede più di 19.600: John Robbins sottolinea che è più di quanto verrebbe consumato facendo una doccia al giorno per un anno!”.

Quella di porre in relazione il consumo e più ancora lo spreco di acqua alle modalità di gestione degli allevamenti intensivi e più in generale dell’industria alimentare non è un’associazione che ci risulta immediata o spontanea. Se pensiamo alla riduzione della nostra impronta idrica (ovvero del consumo di acqua pro capite) le prime azioni che siamo disposti a mettere in atto sono gesti semplici e quotidiani che ci rendano lampante il rapporto causa-effetto, per esempio: chiudo il rubinetto quando insapono i piatti da lavare, ergo contribuisco a ridurre lo spreco d'acqua. Se però non vi è ancora capitato di fare un breve test, questo è il momento giusto: andate a questo link e …. Giocate! Sì, dico sul serio. Il test è proposto dall’esperienza e dall’impegno del WWF e la riduzione della nostra impronta ecologica non è affatto uno scherzo ma… mettere in atto piccole pratiche quotidiane che ci aiutino a risparmiare acqua e distribuire meglio e in maniera più equa le risorse di cui disponiamo può essere facile come fare un gioco. A cominciare da quello che comperiamo per le nostre tavole, ma continuando con la scoperta di quante interrelazioni sconosciute o meno evidenti ci siano tra le nostre abitudini consolidate e il futuro del pianeta.

Finito il test vi sarà ancora più chiaro il messaggio dell’immagine scelta per questo articolo, frutto di un progetto pubblicitario che vede coinvolti l’organizzazione BeBetter e tre studentesse dello IULM di Milano nell’ideazione di una campagna di comunicazione sociale a tema “scarsità”. Non si può dire che l’impatto della loro scelta comunicativa non sia efficace: parole, immagine e dati ci dicono una cosa sola: letteralmente spremiamo acqua dalla carne.

Le attività legate a zootecnia e agricoltura (i cui prodotti servono per lo più a nutrire animali di allevamenti intensivi) sono infatti quelle maggiormente responsabili dello spreco di acqua sul pianeta: parliamo dell’irrigazione di immense monoculture, cresciute su terreni resi aridi dalla frequenza e dall’insistenza delle coltivazioni e quindi a loro volta impregnati di fertilizzanti azotati inorganici per renderli comunque produttivi anche in assenza di humus; parliamo dell’abbeveramento di un numero sproporzionato di animali rispetto agli spazi e ai bisogni (200 litri/acqua al giorno per una vacca da latte, 50 per un bovino o un cavallo, 20 per un maiale e circa 10 per una pecora - e si pensi che anche a fronte di queste quantità, rispetto all’acqua utilizzata in totale nella coltivazione di cereali destinati agli allevamenti, la quantità di acqua consumata dal bestiame in modo diretto è solo dell’1,3%!); e ancora ci riferiamo alla disinfezione delle stalle e dei macelli, attività con risultati gravemente inquinanti se pensiamo a liquami, sangue e residui chimici che defluiscono nelle falde acquifere.

Per rendere queste proporzioni in maniera più immediata pensiamo a un dato: per la produzione di 5 kg di carne bovina occorre la stessa quantità d’acqua che una famiglia media consuma in un anno.

Se poi consideriamo i risultati di questo squilibrio, di certo non troviamo conforto: l’impatto degli stili di vita che perpetuano consumi spropositati è di carattere ambientale (erosione dei suoli, inquinamento, consumo delle risorse), economico (speculazioni sui beni primari) e non ultimo sociale (diseguaglianze nella distribuzione e nell’accesso alle risorse).

Se quindi una scelta orientata alla dieta vegetariana non convince tutti per le sole ragioni etiche, vale la pena considerare le conseguenze che un miglioramento delle nostre consuetudini alimentari potrebbe apportare in termini di sostenibilità e tutela ambientale.

Non solo quindi chiudere il rubinetto mentre ci laviamo i denti, ma dedicare contemporaneamente più attenzione a come riempiamo il nostro carrello della spesa.

Anna Molinari

Giornalista freelance e formatrice, laureata in Scienze filosofiche, collabora con diverse realtà sui temi della comunicazione ambientale. Gestisce il progetto indipendente www.ecoselvatica.it per la divulgazione filosofica in natura attraverso laboratori e approfondimenti. È istruttrice CSEN di Forest Bathing. Ha pubblicato i libri Ventodentro (2020) e Come perla in conchiglia (2024). Per la testata si occupa principalmente di tematiche legate a fauna selvatica, aree protette e tutela del territorio e delle comunità locali.

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