Sudafrica - Mondiali di calcio: parola d'ordine "Sgomberare gli immigrati"

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È il lato oscuro del Sudafrica che ospita i Mondiali di calcio, quello di cui non è opportuno parlare, né scrivere, tanto meno in questi giorni a ridosso del calcio d'inizio. Fra chi opera nel sociale c'è il timore diffuso che dopo la World Cup, una volta finita l'euforia, alcune tensioni, fra cui quelle xenofobe, potrebbero riesplodere. Nel maggio del 2008 gli attacchi di neri sudafricani contro gli immigrati di altri Paesi africani hanno incendiato i quartieri poveri delle grandi città facendo in pochi giorni 60 vittime.

Da allora la polizia sudafricana non ha più registrato ufficialmente alcun crimine a sfondo xenofobo. Eppure nel novembre del 2009 più di 1600 persone inclusi 187 bambini sono stati cacciati da diverse township di Città del Capo dai residenti sudafricani, le loro case sono state distrutte e i beni rubati. Ora vivono in un accampamento a De Doorns, in un'area agricola a un'ora e mezza di auto dalla città.

A Cape Town lo “Scalabrini Center”, fondato dai missionari scalabriniani e gestito da un team internazionale di operatori e volontari, è uno dei pochi riferimenti per i rifugiati: “Siamo preoccupati" - dice Daniele Boccaloni, coordinatore del Centro. “Registriamo minacce sempre più frequenti verso singole persone o verso gruppi etnici. Nelle township e negli insediamenti di baracche c'è chi dice apertamente che dopo i Mondiali ci sarà un assalto agli immigrati e alle loro case per costringerli a lasciare il Paese".

Di fronte a questo allarme crescente le associazioni che danno assistenza ai rifugiati si sono unite in una campagna con l'obiettivo di sensibilizzare i leaders politici e delle comunità locali in modo che predano posizione in modo aperto contro la xenofobia. Secondo le ong il governo tende a rimuovere il problema, a non classificare le violenze come xenofobe se non quando è inevitabile, come lo fu nel 2008.

A 16 anni dalla fine dell’apartheid, il “Paese arcobaleno” è una realtà in cui la diversità culturale (undici lingue ufficiali e tradizioni religiose e giuridiche derivate da tre continenti diversi) è una sfida aperta. Ha fatto scalpore un sondaggio reso noto di recente dall'Istitute for Justice and Reconciliation, che ha rivelato che, a dispetto della lotta per la liberazione, l'apartheid esiste ancora “di fatto” nella società sudafricana: il 24% dei sudafricani durante la giornata non parla con una persona di una “razza” diversa dalla propria, il 46% non socializza mai con persone di un'altra razza in casa propria o di amici, il 39% ritiene le persone di altre razze “inaffidabili” e il 59% trova difficile capire gli usi e i modi di fare degli altri.

Anche le città sono ancora divise. Salvo rare eccezioni ci sono i quartieri dei neri, le aree abitate dai bianchi e quelle dei “coloured”, vale a dire i meticci e i sudafricani con lontane origini asiatiche, che hanno fatto gruppo a sé. A questa complessità interna si è aggiunto negli ultimi anni l'afflusso di altri africani dai Paesi vicini, in fuga da guerre come quella del Congo o da Paesi al collasso economico e politico come lo Zimbabwe. In Sudafrica non si fa distinzione fra rifugiati, immigrati irregolari o in regola da anni, sono tutti odiati allo stesso modo da chi li accusa di “rubare il lavoro” o addirittura “la libertà del popolo” per soddisfare i propri bisogni, come hanno rivelato i report sulle violenze del 2008 di Medici senza Frontiere e Human Rights Watch.

A dare un segnale di quanto il fuoco covi ancora sotto la cenere è stato un episodio legato ai Mondiali. Nella provincia del Gauteng il Dipartimento dei Trasporti ha chiesto ai Red Ants, un gruppo di guardie private, di “abbellire” le città attorno allo stadio di Ellis Park rimuovendo con la violenza gli immigrati. Alle critiche della società civile uno dei rappresentanti dei “Red Ants” ha risposto: "E' la nostra terra e abbiamo il diritto di aiutare le autorità a sloggiarli. Se la municipalità ci chiede di distruggere questi scarafaggi lo faremo e raderemo al suolo le loro case". Un linguaggio che è "identico a quello usato in Rwanda durante il genocidio e in altre situazioni simili" ha scritto sul “Cape Times” Michael Neocosmos, esperto di immigrazione dell'Università del Western Cape.

(Emanuela Citterio - inviata di Unimondo a Cape Town)

 

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