Strasburgo condanna (di nuovo) l’Italia per tortura

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La Corte Europea per i Diritti Umani ha dato ragione a Dimitri Alberti nella causa contro l’Italia per maltrattamenti da parte dei carabinieri durante un fermo. Una condotta quella delle forze dell’ordine identificata come trattamento inumano e degradante.

Spesso alcune vicende portate agli onori della cronaca hanno dei fotogrammi mancanti, come quelle volte in cui uno spettatore manca le scene clou di un film e poi prova a ricostruirle attraverso i dialoghi successivi dei personaggi e l’evolversi della trama.

A ricostruire parte del film della vita di Dimitri Alberti ci ha pensato la Corte Europea per i Diritti Umani di Strasburgo che lo scorso 24 giugno ha sancito il “the end” alla causa giudiziaria da lui intentata contro l’Italia. Alberti, all’epoca dei fatti 38nne e senza fissa dimora, era stato arrestato dai carabinieri nel marzo del 2010 davanti a un bar di Cerea in provincia di Verona con l’accusa di resistenza a pubblico ufficiale, ossia per condotta aggressiva e diniego dell’accertamento dell’identità. Il racconto della vicenda purtroppo si interrompe quando Alberti è fatto salire sulla volante per essere condotto al Comando dai carabinieri. Ritroviamo lo stesso il giorno dopo, dopo aver passato la notte presso la Casa circondariale di Verona, a invocare un intervento medico: le lastre avevano allora rivelato la frattura di tre costole e un ematoma del testicolo sinistro, tutti danni di origine traumatica. Alberti aveva denunciato che le percosse gli erano state inferte dai carabinieri dopo che lo avevano ammanettato con le mani dietro la schiena. Di certo i segni delle manette e le costole rotte avevano indotto all’apertura di un fascicolo per percosse e lesioni ma contro ignoti, perché Alberti non era in grado di fornire precisazioni sull’identità degli uomini in divisa. La versione fornita dalle forze dell’ordine aveva invece attribuito all’evidente stato di ebbrezza dell’uomo e al suo comportamento violento le cause degli stessi colpi, in qualche modo “auto-inferti”. L’inchiesta avviata dalla Procura di Verona aveva poi accertato che durante le fasi dell’arresto non c’era stato un uso illegittimo della forza da parte dei carabinieri; assodato questo punto, aveva chiuso il fascicolo, senza che fosse stata condotta un’effettiva azione investigativa per ricostruire quei tasselli mancanti della storia. Da qui la scelta di Alberti di ricorrere a Strasburgo che gli ha dato invece ragione.

La sentenza della Corte istituita dal Consiglio d’Europa ha infatti condannato l’Italia per i maltrattamenti subiti da Dimitri Alberti durante l’arresto, giudicati una violazione dell’articolo 3 della Convenzione europea dei diritti umani che proibisce i trattamenti inumani o degradanti. La sentenza ribadisce alcuni principi fondamentali secondo cui, in base alla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti umani e delle libertà fondamentali (CEDU), lo Stato è responsabile di ogni persona arrestata, dato che essa è completamente nelle mani delle forze dell’ordine. Conseguentemente, qualora vi sia una denuncia di violenza e maltrattamenti, incombe sullo Stato l’obbligo di fare immediata chiarezza con un’indagine effettiva. Elemento che la Corte ha dunque contestato all’Italia (e alla Procura di Verona) non avendo affatto accertato come Alberti avesse riportato quelle lesioni all’indomani dell’arresto che, agli occhi dei giudici europei, sono apparse incompatibili sia con una condotta legale dei carabinieri che con la tesi che l’uomo se le fosse auto-inflitte.

Mantenendo una incorruttibile fiducia nei confronti del sistema giudiziario, probabilmente il peso dato ai precedenti e alla personalità del ricorrente hanno minato a priori la sua credibilità. Resta però che l’accertamento della verità è avvenuto al di fuori dell’Italia, laddove invece gli è stata negata. Un elemento che, unendosi alla perpetuata assenza di un inserimento del reato di tortura all’interno dell’ordinamento penale vigente, che di fatto rende impossibile procedere giuridicamente contro tale pratica, non può che destare preoccupazione. La sentenza della Corte peraltro si somma alle condanne già subite dall’Italia in passato sempre per violazione dell’art. 3 della CEDU: nel 2013 per le condizioni dei carcerati, nel 2012 per il respingimento in mare dei migranti e nel 2001 per i fatti del G8 di Genova, solo per citare i casi più emblematici.

Curioso davvero come la settimana successiva alla sentenza della Corte la stessa Strasburgo abbia visto “salire in cattedra” il Presidente del Consiglio italiano Renzi ad avviare il semestre di presidenza dell’UE e ribadire la necessità di “un’identità comune da ritrovare” tra gli Stati membri dell’UE. Un esempio di valori di riferimento comune sta proprio nell’adesione di tutti i Paesi dell’Unione Europea alla Convenzione Europea per i Diritti Umani, fin dalla sua adozione nel 1950 un punto di riferimento in materia di garanzia della dignità umana su tutto il territorio “unificato” e non solo. Coerente con le linee guida date dal governo italiano al semestre europeo sarebbe anche il sì definitivo della Camera al disegno di legge, approvato al Senato lo scorso marzo, per l’introduzione del reato di tortura nel sistema penale dell’Italia. Un voto che equivarrebbe inoltre ad un segno di civiltà.

Miriam Rossi

Questa pubblicazione è stata prodotta con il contributo dell'Unione Europea, nel quadro dei programmi di comunicazione del Parlamento Europeo. La responsabilità sui contenuti di questa pubblicazione è di Unimondo.org e non riflette in alcun modo l'opinione dell'Unione Europea. Vedi la pagina del progetto  BeEU - 8 Media outlets for 1 Parliament 

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