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Se il Mediterraneo fosse un mare solidale?
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Foto: Maria Giulia Trombini, Sea-Watch e.V. – Soccorso civile nel Mar Mediterraneo
Mare Solidale è una proposta della Ong Sea-Watch alla Commissione europea per un programma civile di ricerca e soccorso europeo in mare. Appoggiata da altre organizzazioni che, come Sea-Watch, salvano vite nel Mediterraneo, Mare Solidale offre un approccio alternativo a quello adottato finora dall’Unione europea, ma possibile perché fondato su esperienze passate, che hanno dimostrato la fattibilità del progetto.
La proposta si basa sul rispetto del diritto internazionale dei diritti umani e sul diritto internazionale del mare e quindi rientra nel quadro giuridico a cui l’UE aderisce formalmente.
L’obiettivo è dimostrare che la Commissione europea potrebbe decidere, già da oggi, di mettere fine alle morti in mare e assumersi il compito di coordinare e attuare un programma di ricerca e soccorso nel Mediterraneo. Scrive Sea-Watch, che non è una questione di mandato, risorse o meccanismi, ma solamente di volontà politica.
Quello che emerge è la richiesta di un cambio di paradigma: se negli ultimi dieci anni, l'Europa si è rinchiusa in un approccio securitario, le organizzazioni della società civile chiedono un cambio di passo.
Il presupposto è che l’Europa smetta di delegare la gestione dei flussi migratori a Paesi extra Ue che non sono in grado di garantire alcuna tutela dei diritti fondamentali; anzi, spesso si tratta di autocrazie, autrici di gravi violazioni e le cui autorità sono implicate nei sistemi di tratta che l’Europa vorrebbe contrastare.
Mare Solidale parte dal presupposto che se il diritto del mare impone l'obbligo di salvare ogni vita in pericolo in mare e portarla nel luogo sicuro più vicino, Libia e Tunisia non possono essere considerate porti sicuri. Questo vale sia giuridicamente – la Libia non ha aderito alla Convenzione di Ginevra e la Tunisia non ha un sistema nazionale di asilo – sia nei fatti.
Non è un segreto che in Libia e in Tunisia le persone migranti subiscano gravi forme di discriminazione. I racconti dei sopravvissuti – se ne possono leggere diversi nel report Borders of (in)humanity di SOS Humanity, di cui abbiamo scritto in un articolo precedente – testimoniano le violazioni subite, a partire da tortura, abusi, estorsione e la deportazione nel deserto.
Ricerca e soccorso in mare, una questione di protezione civile
Mare Solidale parte da Mare Nostrum, l'operazione italiana che, tra il 2013 e il 2014, aveva portato in salvo più di 156.000 persone, per delineare la proposta di una missione che, in quanto missione di soccorso e salvataggio, sia un'attività di protezione civile.
Ciò significa che il mandato di ricerca e soccorso nel Mediterraneo dovrebbe essere tolto dalle responsabilità delle forze dell'ordine. Infatti, dal momento che alle forze dell’ordine viene affidato un doppio mandato – da un lato quello di attenersi al diritto internazionale sulla tutela dei diritti umani, dall'altro la mansione propria di controllo delle frontiere – il secondo finisce per prevalere sul primo. Così i diritti umani vengono sacrificati.
Invece, la Commissione europea, attraverso il suo direttorato sulla protezione civile (DG ECHO), dovrebbe assumersi la responsabilità di un programma come Mare Solidale, perché detiene il potere di iniziativa e coordinamento, cioè un potere esecutivo.
Per altro, il DG ECHO finanzia già un organo di coordinamento di ricerca e soccorso in acque internazionali (l'ECCR), confermando il presupposto che salvare vite nel Mediterraneo è materia di protezione civile e non di forze dell'ordine. L'ECCR potrebbe assumere il compito di coordinamento dei vari centri di salvataggio marittimi nazionali (MCCRs), che hanno migliore contezza delle zone marittime di competenza.
Allora, questi compiti andrebbero sottratti all'agenzia di polizia delle frontiere, Frontex, i cui dati potrebbero essere utilizzati da ciascun MCCR, in abbinamento ad altre informazioni (ad esempio quelle meteorologiche), utili alle operazioni di ricerca e soccorso.
A fine 2014, l’ammiraglio De Giorgi – Capo di Stato maggiore della Marina Militare – in un’audizione alla Commissione diritti umani del Senato, aveva smentito l’accusa rivolta a Mare Nostrum per cui avrebbe attirato un più alto numero di migranti, dicendo che era una “sciocchezza”.
L’ammiraglio aveva confrontato i dati del novembre 2013 (con Mare Nostrum) e quelli di novembre 2014 (periodo di transizione alla missione europea Triton in mano a Frontex) e il risultato era stato un aumento del 485% degli arrivi.
Mare Nostrum aveva tre obiettivi: contrastare i trafficanti di esseri umani, salvare vite umane e garantire un filtro sanitario. In un anno di attività aveva consegnato alle forze dell’ordine 366 scafisti e 9 navi madri e aveva contribuito ad interrompere il passaggio dei migranti dalle mani dei trafficanti alla malavita organizzata.
Invece, l’operazione europea Triton ha inaugurato la pratica di un mero controllo delle frontiere, senza sorveglianza in alto mare e senza assistenza umanitaria. Assenza che, tra l’altro, è stata sopperita in questi 10 anni dalla presenza delle Ong, criminalizzate per il loro lavoro.
Mare Nostrum si era interrotta per diverse ragioni. Prima di tutto quella economica: l'Italia non voleva continuare una missione che, finanziata da un solo Paese, risultava onerosa agli occhi dell'opinione pubblica. E per la politica difficile da spiegare agli elettori.
A questo si sommava la mancanza di disponibilità da parte degli altri Stati membri ad accogliere i migranti arrivati in Europa. La mancanza di solidarietà degli Stati Ue era supportata dal Regolamento di Dublino, che prevede la regola del primo ingresso, cioè il vincolo che costringe i migranti a fare richiesta d'asilo nel Paese europeo di primo ingresso.
Organizzare l’accoglienza è possibile e auspicabile
Come potrebbe essere gestita la situazione, una volta che le persone sono state salvate e sbarcate nel primo porto sicuro?
Le Ong propongono Centri di Primo Ingresso nelle zone costiere, dove i migranti possano ricevere cure mediche tempestive, informazioni di orientamento e un primo visto di tre mesi. Questo permetterebbe loro di spostarsi in Europa e raggiungere familiari e comunità di riferimento.
Anche qui, le Ong non si riferiscono ad un sistema “buonista” e indulgente, ma impraticabile. Se il timore è quello della sicurezza, va detto che un approccio umanitario non esclude affatto le operazioni di screening proprie delle forze dell’ordine. Ma è una questione di priorità. Immaginiamoci un incidente stradale dove ci sono dei feriti: prima si soccorrono i feriti o si controlla prima la loro carta d’identità?
Le Ong si basano su un esempio concreto, già usato dall’UE. Si tratta del modello di accoglienza dei profughi ucraini. Il meccanismo pensato dall'UE è il Temporary Protection Directive con cui le persone in fuga dalla guerra in Ucraina possono recarsi in un Paese europeo di loro scelta, dove ricevono assistenza legale e di orientamento per l'inserimento nella società.
Un modello riuscito che ha avuto, nel complesso, un innegabile risultato positivo.
Chiaramente la premessa è che la regola di primo ingresso, come da Regolamento di Dublino, venga cancellata.
Le Ong immaginano che le persone migranti, una volta ricevuto il visto di primo ingresso, possano spostarsi nel Paese europeo che preferiscono, e che spesso coincide con quello dove hanno legami parentali o una comunità pronta ad accoglierli. Insomma, dei punti di riferimento, che è un po’ quello che facevano i migranti italiani quando si recavano in Svizzera o in Belgio a lavorare.
La possibilità di arrivare in un Paese dove magari si conosce già la lingua o si hanno maggiori prospettive di inserimento nel mercato del lavoro aumenta le possibilità di successo del progetto migratorio di una persona e, di conseguenza, ha risvolti positivi anche per la società di destinazione, perché la persona migrante può integrarsi più facilmente e contribuire con il proprio lavoro.
Alla fine del primo visto temporaneo, la persona deve avere avviato le pratiche per un visto successivo, sia esso di riunificazione familiare, un permesso di lavoro o studio, o di richiesta d'asilo.
Un sistema così progettato non soltanto potrebbe rendere le rotte migratorie meno traumatiche, ma potrebbe sottrarre capacità di azione ai trafficanti di esseri umani e alla criminalità organizzata.
Salvare e accogliere è anche questione di spendere meno e spendere meglio
Infine la questione dei costi. Secondo le Ong questo modello sarebbe decisamente meno oneroso rispetto all'attuale sistema di esternalizzazione. Conti alla mano, Mare Nostrum aveva un costo annuo di circa 108 milioni di euro. Le operazioni però dovrebbero riguardare un’ampia porzione di acque internazionale e per prevenire completamente le morti in mare, le Ong hanno stimato un costo annuo di 204 milioni di euro.
Sono costi che sarebbero a carico del direttorato di protezione civile europea, il che toglierebbe alle destre europee la narrazione securitaria sulla necessità di aumentare il controllo delle frontiere.
D’altra parte, ciascuno Stato membro, secondo le proprie possibilità, dovrebbe mettere a disposizione non più le forze di polizia, ma personale e capacità di protezione civile. Inoltre, le cure mediche tempestive potrebbero rivelarsi positive anche per i sistemi sanitari nazionali, perché potrebbero prevenire cure tardive e più costose.
Le Ong comunicano che 204 milioni di euro rappresentano lo 0,23% del budget 2023 dell'UE e il 28% del budget 2023 di Frontex. Di certo, rispetto ai soldi spesi nei vari accordi di esternalizzazione con Stati come Libia e Tunisia, una missione civile di ricerca e soccorso europea sembra essere decisamente meno impattante a livello economico.
Conclusioni
Infine, esiste un altro tipo di costo a cui l'Europa potrebbe sottrarsi. Delegare a Stati autocratici le proprie responsabilità rende l'UE vulnerabile e ricattabile ad ogni minaccia da parte di quegli Stati di usare i migranti come mezzo di ritorsione.
La domanda è: vogliamo un’Europa disposta a cedere sui propri valori fondanti, senza nemmeno prendere in considerazione altre soluzioni possibili?
Sea-Watch conclude che questo documento non vuole essere un piano d’azione, ma un’ipotesi che ha l’obiettivo di riaprire una discussione in sede politica. Quella stessa sede politica che, oggi, appare immobile e incapace di visione, mentre il tema migratorio viene brandito dalle destre populiste come un’arma elettorale.
Intanto le persone continuano a morire in un mare diventato fossa comune.
Maddalena D'Aquilio
Laureata in filosofia all'Università di Trento, sono un'avida lettrice e una ricercatrice di storie da ascoltare e da raccontare. Viaggiatrice indomita, sono sempre "sospesa fra voglie alternate di andare e restare" (come cantava Guccini), così appena posso metto insieme la mia piccola valigia e parto… finora ho viaggiato in Europa e in America Latina e ho vissuto a Malta, Albania e Australia, ma non vedo l'ora di scoprire nuove terre e nuove culture. Amo la diversità in tutte le sue forme. Scrivere è la mia passione e quando lo faccio vado a dormire soddisfatta. Così scrivo sempre e a proposito di tutto. Nel resto del tempo faccio workout e cerco di stare nella natura il più possibile. Odio le ingiustizie e sogno un futuro green.






