Rafforzare l’UE: la ricetta franco-tedesca ha un conto salato

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Il sintomo più evidente della crisi europea è il declino delle sue istituzioni: un esautoramento progressivo degli organi comunitari, attuato nel disinteresse della maggior parte dei cittadini (e dei media) del Continente. Eppure, non sono passati neanche due mesi dall’incontro dei leader di Francia e Germania: un convegno bilaterale, a seguito del quale i due governanti hanno comunicato, al resto dell’Unione, la volontà di vedere realizzati ulteriori centri di registrazione dei migranti. Un discorso che riguardava i paesi più esposti ai flussi migratori: Italia e Grecia. Non interpellate. Oltre a questo, si sono premurati di aggiungere che “tutto dovrà accadere velocemente, entro quest’anno, perché non possiamo accettare ritardi”. Dichiarazioni di questa natura (e di questo tono) possono sembrare la conseguenza di eventi eccezionali, come lo sono l’emergenza siriana e l’esodo connesso. Ma sarebbe un errore: si tratta di situazioni a cadenza regolare, che integrano una vera e propria politica.

(Stessa cosa si potrebbe dire del cammino di avvicinamento alla COP 21, la conferenza di Parigi sul clima: un percorso a cui l’Europa avrebbe dovuto pensare da tempo. Invece, il silenzio. Ogni volta sembra di dover ricominciare da capo).

Al di là dei contenuti, che possono essere ritenuti condivisibili, non sfugga un punto: simili indicazioni andrebbero assunte dopo un largo confronto, nelle sedi opportune (le Istituzioni dell’Ue). E con metodo collegiale. Non a ridosso di uno scambio di opinioni fra Parigi e Berlino. Si tratta di uno di quei casi, non rari nel contesto delle relazioni internazionali, in cui la forma è sostanza. Qui, il tentativo di istituzionalizzare i rapporti di forza esistenti ha raggiunto il culmine, passando dalla fisiologia della maggior influenza di alcuni stati alla patologia di diktat neppure attenuati dal pudore. Così si uccide il processo federativo, che deve essere la creazione di uno spazio politico comune, e non il consolidamento di egemonie reali (come quella tedesca) o illusorie (come quella francese).

L’aspetto più inquietante è che tutto avviene nel silenzio degli “altri”. Il motivo? È presto detto: la Germania, che non ha deficit nella bilancia commerciale (esporta più di quel che importa) ha a disposizione somme ingenti da investire nel mercato dei prestiti. È dunque un creditore forte, che tiene in scacco i propri debitori. Molti dei quali europei. Merito della Germania, che ha saputo attuare le riforme necessarie quando i tempi lo consentivano. Peccato che, a lungo andare, questo squilibrio fra le condizioni dei diversi partner abbia fatto deragliare l’Unione dai suoi binari naturali; provocando imbarazzi perfino a Berlino, che infatti ha bisogno del gioco di sponda francese per apparire meno autoritaria. Inutile aggiungere che una Francia indebolita economicamente e politicamente, come quella attuale, è ben contenta di interpretare un ruolo che sa di non avere, ma che si sposa bene con la storia e il carattere nazionali.

Quanto detto non deve sminuire le responsabilità dei cosiddetti pigs: gli stati dell’Unione con maggiori difficoltà finanziarie. Un club di cui ci pregiamo di far parte, nonostante la stabilizzazione (relativa) degli ultimi due anni. Ci siamo messi noi in condizione di fragilità, e ne paghiamo le conseguenze.

Ciò detto, se è vero che la Germania parte da una posizione di forza, è altrettanto vero che non può permettersi il fallimento di economie come quella spagnola o italiana, che trascinerebbero al collasso l’intero mercato europeo: Germania compresa. Siamo dunque provvisti di un certo potere contrattuale, che ci ostiniamo a non utilizzare. O a utilizzare poco. Viene da chiedersi perché, e nella risposta a tale domanda si trova il cuore del dramma europeo: per il semplice fatto che non siamo dotati di leader con una visione ad ampio spettro, che vada oltre le prospettive elettorali.

Ecco perché il resto d’Europa, salvo le solite lamentele a basso continuo, non cerca soluzioni. Ecco perché l’asse franco-tedesco, che un tempo faceva da elemento propulsivo al processo di integrazione, si è trasformato in un limite: nell’immagine stessa dello stallo politico a dodici stelle. Peccato. Anche perché, nel contesto globale, soltanto organismi “regionali” che non siano semplici aggregazioni fra Stati (spinti a cercare, di volta in volta, accordi precari) possono ritagliarsi un ruolo da protagonisti. Persino nazioni forti come la Germania, al cospetto di realtà come gli Stati Uniti o la Cina (e la stessa Russia) finiranno per essere nulla più che comparse.

Lo scenario internazionale post Guerra fredda ci ha consegnato un mondo caotico e pericolosamente conflittuale, in cui il nazionalismo di ritorno rischia di creare un “equilibrio di potenze” in stile ottocentesco. Uno scenario denso di inquietudini. Sarebbe il momento di investire più che mai nel sogno di un vecchio letterato: “Avremo questi grandi Stati Uniti d'Europa, che coroneranno il vecchio mondo come gli Stati Uniti d'America coronarono il nuovo”. Era Victor Hugo, un grande francese. Chiedo scusa: un grande europeo. 

Omar Bellicini (@OmarBellicini)

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