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Per parlare di biodiversità la lingua è quella indigena
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Foto: Unsplash.com
Leggevo tempo fa della parola Kjæreste, che in norvegese indica convenzionalmente il fidanzato o la fidanzata. Ma letteralmente non viene tradotta così. Il vocabolo, di genere neutro (altro che *, ə, @ e altre amenità per essere politicamente corretti!), significa precisamente “chi mi è più caro”.
Da lettrice e scrittrice, amante delle parole e delle loro pieghe più nascoste, nutrita di studi classici, etimologie, radici e temi… trovo che la pratica confermi quotidianamente come i vocaboli siano preziosi riflessi delle lingue, ma soprattutto delle culture che le alimentano e che ne vengono arricchite. Ecco perché non ho nulla in contrario a imparare – e utilizzare – parole d’altrove se esse rendono con maggior efficacia concetti densi di significato e se, a maggior ragione, non ne abbiamo di analoghe nella nostra lingua per riferirci con precisione a determinati sentimenti.
Insomma, le lingue sono finestre sul genere umano e ci aprono orizzonti meravigliosi anche sul rapporto tra uomo e natura, connessioni che esistono non solo nei comportamenti, ma anche nel linguaggio con cui sono espressi: dai nomi degli animali ai suoni del paesaggio, dalla tutela della biodiversità ai legami profondi che vi si originano, le parole sono specchio di un modo di essere e di millenni di osservazione del mondo naturale.
Lo sa bene il prof. David Harrison dell’Università di Hanoi, che per anni ha studiato le lingue indigene in varie parti del mondo, dai nomadi siberiani alle isole Vanuatu al Vietnam, rendendosi conto di come molte di queste lingue contengano una conoscenza speciale delle specie e degli ecosistemi sconosciuta al mondo occidentale e di fondamentale importanza rispetto alla crisi globale che stiamo vivendo. Se le Nazioni Unite hanno più volte riconosciuto la superiorità delle comunità indigene per quanto riguarda la capacità di proteggere il proprio ambiente naturale, si tratta anche di un fattore… linguistico. Una cultura di tutela insita nelle parole, che è diventata oggetto di studio di quella branca emergente della ricerca che si chiama “linguistica ambientale” e che si rivela di grande importanza soprattutto perché, così come molte comunità indigene, anche le lingue sono fortemente minacciate e a rischio di essere sopraffatte da lingue più moderne, più facili, più comunemente diffuse.
In un’intervista rilasciata a Katarina Zimmer per Knowable Magazine, Harrison ha messo in luce le potenzialità di apprendimento che possiamo cogliere da lingue “naturocentriche”. E cioè? Ogni lingua è connessa alla natura ma se chi la parla da essa progressivamente si allontana, la lingua si atrofizza: perdiamo parole perché perdiamo il collegamento con ciò che indicano. Perdiamo di vista la coscienza di un ambiente senziente, che ha influenza su di noi e del quale non siamo solo noi a disporre. I Tuva, per esempio, offrono agli spiriti del luogo rispetto e gratitudine attraverso la costruzione di omini di pietra, ma anche attraverso l’impegno a non sporcare, a tenere pulite le aree dove stagionalmente si accampano, offrendo latte e cibo in determinati siti consacrati e inducendo nei propri animali uno stato psicologicamente favorevole al rilassamento.
Uno degli aspetti più interessanti è che molte di queste lingue sono ancora caratterizzate da una tradizione orale, cosa non così facile da concepire per chi considera il passaggio alla scrittura come un’evoluzione migliorativa che rende superiori. Questo approccio ci rende spesso ciechi davanti alle potenzialità della cultura orale, non solo nel trasmettere informazioni preziose (anche attraverso canti in cui si utilizzano in modo particolare le corde vocali in una gamma di suoni molto più ampia della nostra), ma anche nell’allenare le capacità cerebrali, che invece le nostre abitudini hanno portato a ridurre e, se ci si imbatte in esperienze diverse, le si confina bruscamente all’ambito della magia. Quanti di noi, per fare un esempio banale, sono ancora in grado di memorizzare qualche numero di telefono? Ecco.
I popoli indigeni, per le loro condizioni di vita fortemente interdipendenti con quelle dell’ambiente naturale, sono molto più attenti a come la natura si esprime, cambia, soffre: hanno sviluppato un’attenzione sottile per esigenze di sopravvivenza, che va di pari passo con una deferente conoscenza. Le parole sono in qualche modo una tecnologia avanzata per espandere la mente, topografia del paesaggio linguistico, per imparare a guardare all’ambiente in un modo nuovo. Insomma, lingue che contengono un programma per la sostenibilità, che contano le stagioni secondo calendari ecologici, codificano linguisticamente le norme comportamentali e chiamano per nome il tempo in cui gli animali possono essere macellati o cacciati, quello in cui si possono raccogliere le piante e dove, il rispetto per le prede e per gli animali domestici, l’accortezza di non prendere mai più di quanto occorra realmente.
Una conoscenza immensa, per nulla apprezzata e spesso sconosciuta perfino alla scienza occidentale. Già, perché per proteggere la diversità delle forme vitali bisogna prima sapere che esistono, dove esistono e come si chiamano, ma al momento solo l’etnobotanica e la linguistica si stanno muovendo in direzione del prezioso contributo che altre prospettive possono portare alla salvaguardia della biodiversità, altrimenti, sfortunatamente, la scienza resta ancora coloniale, vittima di un paradigma limitato. E anche le lingue, purtroppo, così come la biodiversità, sono in pericolo, messe sotto pressione da idiomi dominanti: per tenerne traccia esistono sforzi molteplici, uno dei quali è stato creato proprio da Harrison e si chiama Talking dictionaries, raccolta di vocaboli naturalistici afferenti a lingue indigene… la cui proprietà intellettuale è in capo alle comunità stesse. La strada da percorrere è lunga e tortuosa, ma da raccontare con tante voci.
Anna Molinari

Giornalista freelance e formatrice, laureata in Scienze filosofiche, collabora con diverse realtà sui temi della comunicazione ambientale. Gestisce il progetto indipendente www.ecoselvatica.it per la divulgazione filosofica in natura attraverso laboratori e approfondimenti. È istruttrice CSEN di Forest Bathing. Ha pubblicato i libri Ventodentro (2020) e Come perla in conchiglia (2024). Per la testata si occupa principalmente di tematiche legate a fauna selvatica, aree protette e tutela del territorio e delle comunità locali.