Non cantano più gli uccelli (parte terza)

Stampa

[Continua]

Il mattino dopo trovo, nella stessa strada del saluto notturno, una bambina con il ventre squarciato da una granata. Veniva a fare colazione da noi. I suoi parenti sono giù nel pozzo. L'istinto fu di ricomporla per dare un pò di dignità alla morte. Ma non v'è tempo per i morti. Oltre la strada v'era la parrocchia ove si rifugiava Padre Marcel, risparmiato da un suo parrocchiano; un genocidario che ebbe pietà. Vide Padre Marcel ubriaco a terra e disse al suo gruppo: “lasciamo morire tra i stenti e dolori”; passata la sbornia si rifugiò da noi.

Ancora notte. “Eugene, dov'è Eugene?” sussurra il fratello Petero. Anche lui cuoco. Eugene aveva sentito durante la notte che gli interhamwe (genocidari) sarebbero entrati nel centro e, preso dalla paura, scappò. Mentre altri scavalcarono la rete per entrare lui la scavalcò per uscire. Si denudò e scomparve nell'oscurità. Non se ne seppe più nulla. Non fu il solo. Anche altri non si fidarono più delle nostre raccomandazioni, delle mie molotov costruite con la benzina per le jeep e dei camion che la notte  posizionavamo davanti ai cancelli con gli abbaglianti accesi.

Eravamo scarsamente armati: uno scacciacani, un arco di precisione con una decina di frecce, qualche cassa di molotov, un paio di motoseghe, due camion e due jeep. Non potevamo garantire la sicurezza a decine di persone.

Alcuni preferivano uscire la notte dal centro per trovar rifugio nel canneto nel vicino lago. Uno di loro aveva il gesso appena confezionato che s'inzuppò d'acqua. Al mattino rientrava in ospedale. Un professore zairese, durante il giro per sfamare coloro che hanno trovato rifugio, mi confidò: “per voi bianchi una soluzione c'è sempre; per noi no!” Non gli credetti.

La mediazione con i locali fu estenuante. Volevano un nostro camion per andare ad ammazzare più celermente. Erano stanchi di percorrere chilometri in cerca degli “scarafaggi” (l'appellativo che Radio mille Colline dava ai tutsi). Provavo a prender tempo ma alla fine cedetti alla minaccia: “o ci dai il camion o entriamo”. Prima svuotai il serbatoio e glielo consegno in riserva. Dopo venti chilometri e, probabilmente, altrettanti morti si fermò. Crisi. I nostri camion che tanto hanno aiutato i profughi come strumenti di morte.

Arriva l'esercito. Chiede di entrare al centro. Permesso concesso. V'erano alternative? Li accompagna il sindaco François; accoglienza, convenevoli. Poi il comandante con gli occhi venati rossi chiede a Cesarina – la direttrice del centro – la lista. “La lista di cosa?” finge la bresciana. “Lei sa di cosa sto parlando!”

Interviene François: “non c'è una birra per il nostro comandante?” Tempo; prender tempo. E poi la visita del Centro; eccellenza della chirurgia pediatrica e della riabilitazione. Chissà quanto gliene importava. “Adesso basta, ditemi quanti tutsi tenete nascosti”. Ed ancor mediazioni, balle galattiche come la sovranità internazionale, suolo italiano, etc. Se ne vanno. Devono accompagnare i genocidari. Il lavoro da fare è molto.

Lo chiamano lavoro. Si, perché alzarsi al mattino e non andare al lavoro è il dramma! Senza lavoro e senza cibo. Almeno la guerra, il genocidio a questi disgraziati garantiva occupazione, bottino, gruppo. Lo so che è terribile ma il Rwanda aveva più di 7 milioni di abitanti in un territorio minuscolo e non v'era cibo da mesi. Gli affamati venivano assoldati con nulla.  
 Dopo interminabili giornate d'attesa e nottate passate tra le cisterne a mò di vedetta ma anche a difesa delle stesse (basta un gatto morto in una di esse e avrebbero inquinato tutto il centro) arrivano finalmente i belgi. Teste di cuoio. Ragazzi poco più che ventenni dipinti di nero. Senza alcuna paura di uccidere, se necessario. Non devono chiedere permesso ad alcuna autorità sovranazionale ma solo portare a termine il loro lavoro. Il comandante è esperto di evacuazioni: Zaire, Burundi ed ora Rwanda.

Il centro esplode di gioia. Trilli femminili ed urla maschili. Da sopra i container scendono gli scampati. Fradici, sporchi, tanti. Dal giaciglio vicino la sala operatoria escono le ragazze ivi rifugiatisi. Tutti si considerano salvi. Dalla paura collettiva. Da loro stessi. Dai genocidari. Da chi gli sta accanto.
 Hanno fame. I giovani liberatori che lavorano per qualche agenzia di reclutamento hanno fame. Si prepara loro da mangiare. Si da fine alle scorte per accontentare la scorta. Ricordo la gioia che esprimeva la cuoca Josphine e tutte le altre ragazze nel tinello. Fornelli che andavano al massimo. Si mangia tutti assieme e poi si va a Kigali. Destinazione Europa. Via dall'inferno.

Poi il loro capo riceve una telefonata. Urla in francese. Stanno massacrando a Kigali i ragazzi belgi che lavoravano sotto l'egida dell'ONU e che proteggevano il Primo Ministro e che ho conosciuto due mesi prima. Che mi salvarono due mesi prima.

“Contr'ordine. Portare via solo i bianchi! Subito. Ed anche, se necessario, contro la loro volontà. Ora. Veloci, veloci, veloci!” In un apio d'ore parte il prossimo aereo e poi nessuno garantisce per nessuno. Io mi oppongo. Loro hanno il mio passaporto e Paola aspetta il nostro primogenito. Provo a nascondere John, il fabbro, in un bagagliaio di un furgone. Mi sento strattonare da un soldato che ci divide. Io dentro e lui, nero, fuori. Gli insegnanti zairesi mostrano loro il passaporto. Niente da fare; sono neri. L'ordine è categorico: solo bianchi! No discussioni.
 Disperazione. Apartheid.

Il personale tutsi chiede di essere ucciso con una mitragliata. Padre Marcel mi supplica affinché convinca i militari ad ucciderli. Non so se ho intercesso; non ricordo. La Farnesina non risponde, il Console Costa sta facendo del suo meglio a Kigali e non risponde.
 A forza ci caricano su camion o furgoni. Abbandoniamo tutti! Sotto la minaccia delle armi affinché nessuno tentasse di salire sui mezzi in partenza. In capitale è iniziata la caccia al belga. Vietato parlare francese. Per noi. Vietato avvicinarsi ai camion. Per loro. I furgoni non devo andare fuori le tracce battute dai cingolati. Ordini, ordini e ordini.

Lasciamo in colonna il centro. Vedo Petero sul tetto della cucina. Non gli resta che aspettare la morte. Gli altri sono sotto. Impauriti. Io mi sento un verme.

Passiamo lenti davanti alla scuola superiore di Rilima ove io allenavo la squadra di basket. Trattasi della stessa scuola che formò Ndandaye – il rinascimento dell'Africa. M'informano che i giocatori son già stati tutti uccisi e seppelliti. Con la mano fuori terra...qualora volessero ancora giocare.

La strada è infinita. Vediamo contadini armati ovunque a difesa della loro proprietà, famiglia, poche cose. I giovani allucinati che indicavano agli squadroni ove si rifugiavano alcuni. I cani hanno aiutato a scovare gli scampati. Arriviamo alla strada asfaltata: il genocidio. Fiumane di gente che tenta di passare nei posti di blocco. Chi ha la carta d'identità marchiata viene messo da parte ed ucciso. Se paga bene gli verrà preferita un proiettile di piombo.

“Scarafaggi, scarafaggi” urlano alcuni con il machete lordo. “Questi bianchi nascondono scarafaggi” ed i soldati belgi non tardano, a differenza dei loro colleghi caschi blu, a ricordare che sono armati.

Nel bivio per l'aeroporto v'è un giovane che gioisce della fuga dei bianchi: “andatevene e non tornate più!” Una cacciata.  
 A Kigali ci timbrano il dorso della mano. Ci attende un aereo che sarà, tra l'altro, carico di cani. I cani dei signori che vivevano in capitale. Poche le persone di colore (nazionalità inglese). Destinazione Bruxelles, via Nairobi. L'aereo decolla tra i colpi di fucile nella sua direzione. Il Rwanda brucia. Colonne di fumo si alzano dai cortili dei tutsi. Incendiate tutte le loro proprietà. A perdita d’occhio l’inferno.

A Nairobi cambiamo aereo e mentre lo facciamo intravvediamo i paracadutisti italiani bighellonare in attesa di comandi che non arrivano. 
 In Belgio ci aspetta il Console mentre il Corriere della Sera titola in prima pagina: Salvi gli italiani con tutto il personale locale. Come promesso dalla Farnesina.
 Giandomenico va su tutte le furie. Le organizzazioni non governative pure. E' una palla. Il Console ci ascolta e chiede un incontro immediato con il Ministro Belga; anche lui presente all’aeroporto. Non sono stati rispettati gli accordi.

Il Ministro belga ascolta e si lamenta delle pretese degli italiani. Dopo una lite affatto diplomatica, il Console risponde secco: Je ne suis pas italien (non sono italiano). Sono sicuro! Silenzio. Il Ministro alza la cornetta ed invia una task force da Kigali, via elicottero, a Rilima. Li salva tutti...a parte uno; dopo una giornata di terrore. Ostaggi dell'esercito ed in attesa dei genocidari, stanchi e lontani.

Ci ritrovammo in Europa con decine di bambini, adulti, scampati. Sia a Bruxelles ove la regina Paola ne ospitò molti che all'asilo di Castenedolo di Brescia che offrì la sua struttura per accogliere i più piccoli. Ironia della sorte. L'asilo è a pochi metri dalla Valsella. La stessa fabbrica di mine vendute anche nei Grandi Laghi.

Da lì a poco insorse la società civile e la Valsella venne riconvertita. Ci si nutre di speranza.

John, il fabbro, tentò il suicidio spruzzandosi insetticida nella gola. Non funzionò. Allora si rifugiò in un camino ma i piedi gli avanzarono fuori. Passato il pericolo ognuno ci raccontò come  se la cavò dal giorno del nostro abbandono. Passarono i giorni. S’insidia il governo dei vincitori. Lo stesso da allora. Iniziò la vendetta con carceri stipate di persone.

Dai Grandi Laghi iniziò la conquista della Repubblica Democratica del Congo. La guerra continentale per la conquista di suolo e sottosuolo. Casualmente (?) i 3 presidenti di Uganda, Rwanda e Burundi avevano studiato scuola di guerra negli States. I contratti, per la proprietà delle miniere del Congo, vengono scritti, oggi, in lingua inglese. Nel '93 in francese.

Il Rwanda ha fatto, da allora, progressi da gigante ed è invidiato in tutta l'Africa. A spese di chi... lo sa solo il Congo

 Fabio Pipinato

Non cantano più gli uccelli (parte prima)

Non cantano più gli uccelli (parte seconda)

Ultime notizie

La scheggia impazzita di Israele

12 Settembre 2025
Tel Aviv colpisce, implacabile, quando e come gli pare, nella certezza dell’impunità interna e internazionale. (Raffaele Crocco)

Eternit e panini kebab

10 Settembre 2025
Un pellegrinaggio sui campi da rugby italiani, con lo scopo di condividere e raccontare le capacità riabilitative, propedeutiche e inclusive della palla ovale. (Matthias Canapini)

I sommersi!

08 Settembre 2025
Entro il 2100 il livello marino sulle coste italiane potrebbe aumentare di circa un metro. (Alessandro Graziadei)

Stretching Our Limits

06 Settembre 2025
Torna Stretching Our Limits, l’iniziativa di Fondazione Fontana a sostegno delle attività de L’Arche Kenya e del Saint Martin.

Il punto - Il balletto delle "alleanze fragili"

05 Settembre 2025
Nel balletto delle “alleanze fragili”, una partita fondamentale la sta giocando il genocidio a Gaza. (Raffaele Crocco)

Video

Serbia, arriva a Bruxelles la maratona di protesta di studenti per crollo alla stazione di Novi Sad