Le tre grandi crisi dell’Europa

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Con il voto in Gran Bretagna e Olanda iniziano oggi le elezioni europee 2014. Questa consultazione che coinvolge 26 Paesi e poco meno di 400 milioni di elettori, giunge nel mezzo di tre grandi crisi, più o meno annose: la crisi economico- sociale; quella che potremmo definire politica, ideale e culturale; infine la recentissima (ma con profonde radici) crisi ucraina. Proprio in questo fine settimana si vota in Ucraina, una coincidenza che lega ancora di più Kiev al destino dell’Europa.

Tutte e tre le crisi mettono in grave discussione i fondamenti stessi dell’utopico progetto di reale unificazione del Continente ma pure beni che ritenevamo di avere conquistato definitivamente, quali la pace, la sicurezza, la convivenza tra diversi. Dentro e fuori dai nostri confini. Ora il combinato disposto di queste tre crisi rischia di minare l’edificio europeo e con esso il nostro futuro. Su questo ha ragione il leghista Salvini: peccato che la sua idea di futuro (no Euro, no immigrati) sia diametralmente opposta alla nostra.

Cominciamo dall’ultimo scenario di crisi, quello dell’Ucraina. Difficilissimo inseguire la cronaca. Impossibile fare previsioni su un conflitto che rischia di incendiare tutto l’Est Europa e di ridisegnare i rapporti con la Russia. Siamo arrivati a questa situazione per una sorta di mancanza di comprensione, in generale della Russia odierna e in particolare del regime di Vladimir Putin. Eravamo ormai tranquilli, i legami commerciali solidi, le relazioni economiche reciproche e necessarie per ciascuno, gli spazi politici di influenza ben delineati. La Nato poteva stare lontana dal quadrante europeo e lanciarsi in altre operazioni belliche come quella in Afghanistan; il suo allargamento ad est veniva ritenuto soltanto questione di tempo, poiché la Russia era troppo debole per opporvisi. Certo non sarebbero mancati screzi, ma l’amministrazione Obama poteva rivolgere il suo sguardo altrove, all’Oceano Pacifico.

Così non era. E lo vediamo oggi. Putin non solo si colloca in alternativa agli Stati Uniti in un mondo diventato multipolare, ma rivendica pericolosamente un Lebensraum (“spazio vitale”) di cui non si conoscono i contorni, se non la difesa dei russofoni.  L’Ucraina appartiene sicuramente  a questo spazio. Quale sarà l’esito della crisi in atto non possiamo saperlo. Non sembra neppure scongiurata una guerra diretta tra truppe russe e esercito ucraino (rinforzato da aiuti americani), mentre sono già cadute numerose vittime e la determinazione russa sembra impedire qualsiasi allentamento della tensione. Un conflitto lungo, anche se a bassa intensità, potrebbe innescarsi con conseguenze imprevedibili.

Si formerà una nuova “cortina di ferro” spostata solamente un po’ più a est? Una soluzione concordata andrebbe bene a tutti, ma ugualmente Putin potrebbe continuare nel suo disegno espansionistico ben cosciente della debolezza europea.

L’Ucraina mette in discussione l’identità dell’Europa. I suoi confini innanzitutto: la Russia è Europa? Dobbiamo invece pensare a un ritorno della contrapposizione tra oriente e occidente, tra ortodossia e le altre confessioni cristiane? Quando Romano Prodi si batteva con tutte le forze per l’allargamento a est dell’Unione Europea probabilmente si rendeva conto che la finestra di tempo disponibile per completare l’operazione sarebbe stata limitata: la storia gli dà ragione. Ora non sarebbe più possibile. L’adesione all’Unione Europea dei Paesi un tempo parte del Patto di Varsavia ha però coinciso con l’allargamento a est dell’Alleanza Atlantica: non si capisce allora se sia la Nato a sorvegliare e a sancire i confini d’Europa. Da questo punto di vista la dipendenza dagli Stati Uniti è totale, come appunto si vede nella vicenda ucraina. È chiaro che gli USA non vogliono un’Europa troppo libera e troppo protagonista e che quindi “sfruttano” la situazione per assumere assoluta centralità. Per ora l’Europa coincide con gli Stati europei appartenenti alla Nato (più qualcuno che non fa parte).

Veniamo dunque al secondo punto che riguarda la crisi politica e culturale della UE. Gli ultimi 10 anni sono stati segnati da un sostanziale stallo, mentre intorno cambiava tutto davvero. Ciò che è mancato in particolare è la capacità di fare un argine al ritorno in grande stile dei peggiori rigurgiti di destra, presenti in quasi ogni paese europeo, con l’eccezione (e questo va sempre sottolineato) della Germania.

Rispetto al caso Haider di 15 anni siamo di fronte a un inquietante salto di livello: in Francia, Olanda, paesi scandinavi, Gran Bretagna ci sono partiti apertamente fascisti o inneggianti a inequivocabili simboli e valori. Non parliamo poi della Grecia, strangolata dalla crisi e dalle ricette eccessivamente rigoriste, dove Alba Dorata è nei sondaggi il primo partito. Tutte le rilevazioni dicono che questi partiti e movimenti avranno un grande successo alle elezioni. Consola in parte il fatto che le loro piattaforme programmatiche siano in realtà molto variegate e che sarà molto difficile creare un gruppo omogeneo nell’Europarlamento, circostanza che diminuirà notevolmente la loro reale incidenza. Saranno ancora i due gruppi principali, il PSE e il PPE a guidare le sorti dell’Unione. Questo meccanismo però non cambia per nulla i termini della questione. L’Europa democratica non è riuscita a fare fronte comune  contro populisti e  xenofobi che, negli scorsi anni, stavano svolgendo le prove generali per esempio sul sulle migrazioni interne all’Europa (vedi la propaganda contro “l’idraulico polacco” che rubava il lavoro dei francesi) e ovviamente su quelle esterne-soprattutto quelle provenienti dai paesi islamici.

 La “narrazione” dell’ultimo decennio è stata appannaggio quasi solamente dei detrattori del progetto europeo che non si è più ripreso dal fallimento del processo costituente, naufragato con la sconfitta ai referendum in Francia e in Olanda. Dopo queste consultazioni è stato solo un rincorrere affannoso degli europeisti incapaci di proporre un piano alternativo, se non quello di rafforzare l’unione monetaria. Poi è intervenuta la crisi economica che ha accentuato contrapposizioni già presenti.

Arriviamo così alla terza crisi, quella sulla bocca di tutti, la crisi economica. Davanti all’emergenza dei conti pubblici e dei debiti sovrani ecco che il protagonismo di Draghi si è fatto ancora più significativo. La Germania e la BCE, spesso su posizioni apertamente diverse, si sono trovate d’accordo, insieme con le altre istituzioni internazionali, ad imporre pesantissime condizioni agli Stati messi peggio dal punto di vista finanziario. È noto a tutti il caso della Grecia, ma è pur vero che, se guardiamo senza strumentalismo, anche Paesi come l’Italia sono stati almeno in parte “commissariati” dall’Europa. Ora si dice che le ricette economiche troppo rigoriste hanno peggiorato la situazione favorendo invece Paesi virtuosi come la Germania; è giusto anche sottolineare che ora servono politiche espansive che ridistribuiscano il reddito, che tutelino il lavoro e che prevedano pure interventi pubblici. Tuttavia se negli anni scorsi il sistema creditizio fosse collassato ci troveremmo in una situazione ben più disastrosa che avrebbe finito per schiacciare non i grandi capitali (quelli si salvano sempre) ma i piccoli risparmiatori.

I provvedimenti che vanno dal famigerato ma poco conosciuto “fiscal compact” fino alla recente normativa sull’unione bancaria, approvata in aprile dal Parlamento Europeo, sono fondamentali per il nostro futuro, benché siano avvolti da un linguaggio burocratico e spesso indecifrabile. Sono passi nella giusta direzione, almeno per quanti sognano gli Stati Uniti d’Europa.

Occorre dunque reagire agli attacchi concentrici e quasi sempre strumentali all’Europa. Cerchiamo di vedere i numerosi lati positivi di una costruzione istituzionale di cui non possiamo fare a meno. Come accade sempre chi urla di più riesce a farsi sentire di più e quindi a dettare l’agenda politica. In questi ultimi mesi l’agenda verso le elezioni europee ruota intorno ai punti degli euroscettici, invece che parlare concretamente di futuro. Dire “no euro” non significa nulla, è solo uno slogan poiché l’uscita dell’Italia dalla moneta unica sarebbe impraticabile e catastrofica proprio per l’economia. Non si discute invece sull’effettiva integrazione economica del continente, sugli strumenti per condividere il debito, sulla possibilità di una svolta ecologica. Occorre rivendicare la bontà del progetto europeo che ha consentito ai giovani di viaggiare, di studiare liberamente nei vari paesi della UE, di non percepire quasi più i confini. Dobbiamo tenerci stretto il nostro modello di welfare che permette a quasi tutti un’assistenza sanitaria di qualità che altri paesi ricchi, a cominciare dagli USA, sognano.

In questo frangente così critico dobbiamo dire un sì all’Europa, all’Europa che vogliamo. Anche di fronte ai populismi che albergano in Italia. Il futuro non è roseo e potrebbe offrirci amare ed inaspettate sorprese. Ma con i carri armati che si muovono all’est e le pulsioni razziste che ancora riaffiorano, l’unica soluzione è tenerci stretta la nostra vecchia cara Europa che abbiamo con fatica costruito in questi cinquant’anni.

Piergiorgio Cattani

Fonte: il-margine.it

Questa pubblicazione è stata riprodotta con il contributo dell'Unione Europea, nel quadro dei programmi di comunicazione del Parlamento Europeo. La responsabilità sui contenuti di questa pubblicazione è di Unimondo.org e non riflette in alcun modo l'opinione dell'Unione Europea. Vedi la pagina del progetto  BeEU - 8 Media outlets for 1 Parliament 

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