www.unimondo.org/Notizie/Crisi-bancarie-cosi-l-Europa-cerca-di-gestirle-145585
Crisi bancarie: così l’Europa cerca di gestirle
Notizie
Stampa
L’accordo per la creazione del Single Resolution Mechanism è molto complesso e presenta innegabili criticità. Ma è importante perché completa l’Unione bancaria. E, per la prima volta, introduce nell’area euro il principio della gestione centralizzata delle crisi bancarie.
ZONA CESARINI
L’accordo sul Single Resolution Mechanism (Srm) rappresenta, in perfetto stile comunitario, il classico compromesso raggiunto in zona Cesarini per consentire al Parlamento di ufficializzarlo nelle ultime sedute utili, fino al 17 aprile, prima della scadenza della legislatura, evitando anche ai parlamentari europei uscenti la brutta figura, alla vigilia delle elezioni, di non aver mantenuto la promessa di completare l’Unione bancaria.
E, sempre in perfetto stile comunitario, è uno di quei compromessi terribilmente complicati: è veramente difficile arrivare al termine delle 159 pagine del progetto senza dubbi e convinti di aver capito tutto.
D’altronde, volgendo lo sguardo al passato e alle posizioni (e rigidità) di partenza dei diversi stati membri, è un risultato positivo tanto che i negoziatori si sono presi i complimenti ufficiali del Consiglio europeo. Usando la famosa metafora del bicchiere mezzo pieno e mezzo vuoto, tornata molto in voga in questi giorni, potremmo dire che di acqua ce n’è comunque abbastanza, e altra, seppur lentamente potrà aggiungersi.
Abbastanza perché finalmente è stata centralizzata anche la gestione delle crisi: il vero pericolo era, infatti, che dopo aver attribuito poteri di vigilanza alla Bce, in assenza di un serio intervento sui rischi di patologia, si avesse una Banking Union zoppa, che alla fine non avrebbe funzionato.
È una centralizzazione per certi versi simmetrica a quella utilizzata con i poteri di vigilanza della Bce: la nuova autorità, il Single Resolution Mechanism Board sarà competente per le banche “significative” e quelle cross-border e comunque ogni volta che si debba utilizzare il Single Resolution Fund (Srf), mentre le autorità nazionali conserveranno la competenza per tutte la altre, ma sempre coordinandosi con il (e sotto l’ombrello del) Board, che potrà intervenire anche di propria iniziativa.
Il Board ha a disposizione vari strumenti di intervento, ormai noti perché previsti nei diversi progetti comunitari succedutisi in questi ultimi tempi, ma che aspettano ancora le prima verifiche operative: si tratta di misure per prevenire l’aggravarsi della crisi, oppure per gestirla quando è ormai conclamata. Fra queste, la vendita delle attività, la creazione di una bridge institution, la separazione delle attività. Particolarmente atteso al debutto, è il bail in, con il quale si può incidere sui diritti dei creditori fino a obbligarli a convertire i crediti in azioni. La misura, dalla quale sono comunque esentati i depositi inferiori ai 100mila euro garantiti dai sistemi di tutela dei singoli stati membri, ha una grande portata perché incide direttamente sulla rischiosità del funding delle banche e apre la strada anche al riconoscimento ai creditori “forti” di maggiori poteri di monitoring nella governance delle imprese.
CHI DECIDE E CHI PAGA
La procedura prevede che sia la Bce, nell’esercizio dei poteri di vigilanza, a segnalare quando una banca sta fallendo o è probabile che fallisca (is failing or likely to fail), e il board, valutato se ricorrano i presupposti per l’intervento pubblico e non vi siano possibili alternative private, adotta il piano di risoluzione. Nella procedura entra anche il Consiglio che su proposta della Commissione può opporsi, qualora contesti l’esistenza di un interesse pubblico oppure quando il piano preveda un esborso tale da comportare una material modification all’ammontare dell’Srf, ma per farlo ha un tempo limitatissimo: 24 ore.
Il board è formato da un presidente e quattro membri a tempo pieno, più i rappresentanti delle autorità nazionali, un osservatore indicato dalla Bce e uno dalla Commissione. La maggior parte delle decisioni vengono prese dalla componente esecutiva del board (il presidente e i quattro membri), mentre per quelle che richiedono gli interventi più onerosi per l’Srf (superiori ai 5 miliardi) la competenza è della sessione plenaria.
La vera chiave di volta al centro della defatigante trattativa è, però, la struttura dell’Srf, che il board potrà utilizzare per iniettare risorse nella banche in crisi. A regime, e cioè a otto anni dall’entrata in vigore del meccanismo, il Fondo metterà in campo una batteria da 55 miliardi di euro, mentre nel periodo di transizione ci saranno tanti comparti nazionali basati sugli apporti delle banche dei diversi stati, comparti che saranno progressivamente mutualizzati. E a testimonianza della sua funzione di intervento in seconda battuta e della priorità assegnata ai privati nel caricarsi i costi della crisi, il Fondo si attiverà solo a condizione che una determinata percentuale delle passività (8 per cento) sia stata già coperta da risorse interne alla banca e comunque potrà coprire non più del 5 per cento delle passività totali.
GLI (INEVITABILI) DIFETTI
Questa rapida fotografia conferma chiaramente la complessità dell’accordo e anche l’ambiguità di alcuni passaggi. Ad esempio, non è ben chiaro come si coordineranno i poteri di vigilanza della Bce (previsti dal regolamento 1024/2013) con quelli di intervento del board; né come sarà possibile, in caso di dissenso, mettere d’accordo tutti i soggetti coinvolti negli strettissimi tempi previsti dalle procedure. Ed è fin troppo scontato paragonare la striminzita cifra di 55 miliardi per l’operatività del Srf a fronte dei 591 miliardi usciti dalle casse statali dal 2008 al 2012 per salvare le banche sparse per l’Europa.
Criticità e ambiguità inevitabili, se solo si pensa allo sforzo di trovare una posizione comune soprattutto sul terreno della mutualizzazione delle risorse, ma il meccanismo per costruire una disciplina unitaria per la soluzioni delle crisi bancarie, lentamente e con tutti i difetti possibili, è partito (è questo il vero elemento di rottura) e difficilmente i paesi membri lo potranno fermare, anzi inevitabilmente fungerà da catalizzatore anche per i non aderenti all’euro. E poi, come spesso avviene, la concreta sperimentazione porterà buoni consigli. Così, se è innegabile la complicazione di un processo decisionale che può coinvolgere molte persone in poche ore, realisticamente, lo sottolinea Daniel Gros, le poche persone che conoscono nei dettagli il singolo caso finiranno con il prendere la decisone importante e agli altri “sarà gentilmente chiesto di essere d’accordo”.
PERCHÉ CONVIENE
Quando si deve affrontare la lettura di un così lungo testo comunitario la tentazione molto forte è quella di passare direttamente agli articoli, saltando a piè pari la solitamente noiosissima, e in verità non sempre utile, prima parte dei “considerando” (sono ben 123) che illustrano le ragioni dell’articolato. Questa volta, però, avvicinandosi le elezioni europee, è una lettura consigliata perché spesso le “tecnicalità” (e qui ce ne sono fin troppe) fanno perdere di vista il significato di fondo e gli effetti reali del provvedimento. Così, dal “considerando” n. 12 in poi si legge che le diversità nella disciplina delle crisi tra gli Stati membri hanno un impatto negativo, favorendo la frammentazione del mercato, un sperequazione nel trattamento dei tax-payers (e cioè noi, quando dobbiamo pagare per salvare le banche), generano un clima di incertezza sui rischi di credito e di sfiducia nel sistema, che alla fine si riversa sui costi dell’attività creditizia e sulla sua capacità di supportare le economie. Cose ovvie, si dirà, ma è importante ricordarle perché questo compromesso, con tutte le sue complicazioni, è comunque un grande passo avanti che testimonia quanto, sul terreno delle regole, sia decisamente conveniente tenerci stretti all’euro.
Francesco Vella
Fonte: lavoce.info