Le due facce dell’uomo “cosmopolita”

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Chi, come me, si occupa di educazione e si pone necessariamente la questione teleologica, riguardante le finalità dell’educare, trova interessante, stimolante ma anche fortemente problematica l’idea di “uomo cosmopolita”. Può questa configurarsi come valida istanza pedagogica? Può aiutarci a individuare, all’interno dell’odierno disorientamento esistenziale, etico e, naturalmente, pedagogico, una direzione di impegno credibile, un “senso”, una bussola capace di orientarci a una prospettiva autenticamente umanizzante?

Ribadisco che la questione appare problematica, dato che l’idea, o l’ideale, del “cosmopolitismo” non è esente da ambiguità. È perciò il caso di    indagare, per così dire, sui “pro” e sui “contro” e, nel caso, delineare una proposta.

Da un lato, per molti versi il cosiddetto “cosmopolita” appare una mera astrazione, un’illusione teorica che ha cominciato a prendere decisamente piede quando, più di due secoli fa, l’ottimismo della dea ragione spianava la strada alla conoscenza e al possesso del mondo concepiti come campo d’azione di un progresso umano continuo e senza limiti. In tale prospettiva, che appare sia ingenua sia presuntuosa, il “cosmopolita” viene ad assumere le sembianze di un “individualista eccentrico e presuntuoso” che si gloria di amare e possedere il mondo, spesso dal chiuso della propria camera, altre volte come effettivo viaggiatore ed esploratore dei continenti – ma all’interno dell’asettica e aristocratica appartenenza ad un mondo esclusivo, riservato più a protagonisti dell’immaginazione letteraria (cfr. Julius Verne) che a che agli esseri umani concreti e, per così dire, “terra terra”. Il cosmopolita rischia così di definirsi “cittadino del mondo”, essendo tuttavia incapace di essere “cittadino di se stesso”, “cittadino terra-terra”, “cittadino del suo villaggio reale”: è il “cosmopolita avulso”, protagonista di una “fuga dal mondo” che induce a dire “abito il mondo” essendo tuttavia “abitante del nulla”, del tutto incapace di sentire la forza vincolante dell’autoctonìa (cfr. Mircea Eliade), il legame di amore riconoscente con la propria terra, con la propria gente concreta.

Rischiando, per altro verso, sempre all’interno di questa ansia di possedere il mondo fagocitandolo, di tradurre il cosmopolitismo in colonialismo. La storia è una vasta rassegna di viaggi di conquista, in base alla visione del mondo come “territorio da incorporare”: si è “cittadini del mondo” in quanto, abili interpreti di quella strategia che Bauman definisce “fagica”, lo si assimila conquistandolo e divorandone le risorse. All’interno, evidentemente, di una relazionalità di tipo up-down, vincente-perdente.

Esiste tuttavia l’altra faccia della medaglia, un “cosmopolitismo” alternativo al precedente e che assume pertanto una valenza positiva anche in chiave pedagogica, quando la vocazione al mondo si esplicita sia come contestazione delle appartenenze identitarie chiuse (del mito dei confini, delle nazioni a se stanti, di ogni forma di inscatolamento esistenziale, culturale, politico) sia come impegnativa pratica di una solidarietà più ampia e capace di un’inclusione che non sia mera assimilazione passivizzante ma autentica convivialità interculturale delle differenze.

In questo caso, il “cosmopolita” si configura come fedele interprete del nuovo paradigma antropologico “dialogico-solidale”, per il quale l’essere umano è per sua natura “dialogico”, “interculturale”, “relazionale” (Martin Buber – Emmanuel Mounier e altri). In quest’ottica si colloca la nostra preoccupazione per le altre persone e per il mondo (“I Care”, secondo l’attualissima lezione di don Milani). L’individuo diventa persona solo in relazione con gli altri e in questa apertura al mondo come soggetto di amore (e non oggetto di possesso). Ernesto Balducci (“l’uomo planetario”), Chiara Lubich (“l’uomo-mondo”, capace però di “morire per la propria gente”), Edgar Morin (la “cittadinanza terrestre” come espressione di una “testa ben fatta”) sono solo alcuni dei molti interpreti, con le accentuazioni più varie, di questo modus vivendi.

Va tuttavia sottolineato che, accanto all’idea di persona-mondo, i medesimi autori mettono in evidenza l’idea di “comunità”. Proprio la comunità, infatti, costituisce lo spazio vitale e generativo, il collante tra il micro e il macro, tra la persona e il mondo, tra l’io finito e l’io-mondo. Ma è spesso un “anello mancante”, senza il quale si cade nell’enfatizzazione del micro (dell’io in sé) o del macro (del mondo avulso e virtuale).

In ultima analisi, e per sintetizzare, il percorso per una autentica formazione cosmopolita vede i seguenti passi essenziali:

•             La Persona (dialogica-solidale)

•             La Comunità (“persona di persone”) (integrazione/inclusione: non “comunità a parte” ma tutti “parte della comunità”. Passaggio dall’ “immunitas” alla “communitas”).

•             La comunità-Mondo (comunità delle comunità, communitas communitatum; luogo di “inter-esse”: inter-cultura” come sfida) – idea del “glocale” (con superamento del locale e del globale = locale e globale non antinomici, opposti, ma polarità in dialogo nella dimensione personale e collettiva).    

Giuseppe Milan

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