Africa: l’emergenza che non fa più notizia

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Foto: Unsplash.com

Presidente a 92 anni? È possibile A fine ottobre il Consiglio costituzionale del Camerun ha confermato la vittoria elettorale di Paul Biya, nato nel 1933 e già presidente dal 1982. Davvero curioso mantenere nel ruolo apicale dello Stato un attempato politico in un Paese con età media della popolazione pari a 18 anni! Con tutta probabilità, l’anziano presidente non è in grado di governare effettivamente il Camerun: un’idea plausibile, avvalorata da articoli su suoi persistenti soggiorni prolungati all’estero che si uniscono all’assenza sulla scena pubblica anche in campagna elettorale. Il potere effettivo sarebbe allora in una stretta cerchia di ministri storici nei settori chiavi, finanza, giustizia e comunicazione, a supporto del segretario generale della presidenza Ferdinand Ngoh Ngoh e della first lady. Queste persone stanno cercando di gestire un Paese sull’orlo del possibile baratro con un regime gerontocratico di facciata costituzionale contestato dagli oppositori sconfitti alle urne che gridano al broglio elettorale, il malcontento popolare in crescita soprattutto nei territori francofoni, mentre le regioni separatiste anglofone ad Ovest sono da anni al centro di un’insurrezione e non hanno praticamente partecipato al voto. Manifestazioni, incidenti, arresti e morti si stanno verificando nel Paese: 48 ad oggi e alcuni giorni fa si è assistito al giuramento del presidente per il nuovo mandato settennale.

Poco più Est, la Repubblica Democratica del Congo resta un Paese in cui saccheggio, occupazione, morte (e silenzi internazionali) la fanno da padrone. “Un genocidio silenzioso che dura da 30 anni” è stato definito dal presidente della RDC, Felix Tshisekedi, all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite lo scorso settembre, occasione nella quale ha denunciato la prosecuzione dell’occupazione delle regioni orientali del Paese da parte delle milizie M23 (controllate dal Ruanda) dopo l’eccidio a Goma di 3mila persone in appena 2 giorni di occupazione lo scorso gennaio, gli altrettanti massacri, rapimenti, stupri e saccheggi delle bande jihadiste dell’ADF, la crisi alimentare; tutto in nome di un fiorente traffico internazionale illecito di minerali che alimentano la tecnologia mondiale. E mentre resta lettera morta l’intesa tra Kinshasa e Kigali, siglata lo scorso giugno a seguito della mediazione di USA e Qatar, per porre fine al ventennale conflitto tra Repubblica Democratica del Congo e Ruanda con il disarmo dei gruppi armati, il rispetto dell’integrità territoriale e il ritorno dei rifugiati, l’Organizzazione Mondiale della Sanità segnala in questi giorni il ritorno dell’ebola nel Paese.

Muovendosi fino all’Oceano Indiano, in Tanzania le elezioni generale del 29 ottobre hanno determinato una lunga ondata di repressione, tanto prima dell’appuntamento elettorale quanto durante e a seguito dello stesso. La conferma alla presidenza di Samia Suluhu Hassan con il 98% dei consensi e il totale dominio del suo partito, Chama Cha Mapinduzi (CCM), all’Assemblea Nazionale hanno determinato il caos. Arrestati i capi del principale partito di opposizione CHADEMA con l’accusa di tradimento, cospirazione e di disordini violenti; almeno 3mila i morti, uccisi delle forze di polizia, e in migliaia risultano ancora i dispersi. Si parla di raid nelle case di notte e di fosse comuni; il blocco di internet e il messaggio istituzionale inviato ai cittadini del controllo delle comunicazioni non aiutano a far luce sulla situazione nel Paese. In un Rapporto diffuso recentemente da Jumuiya Ni Yetu e dal Pan-African Solidarity Collective, che riuniscono organizzazioni per i diritti umani e della società civile di 10 Stati africani, si denunciano i crimini contro l’umanità di cui si sarebbe macchiato lo Stato tanzaniano.

Risalendo circa 3000 Km verso Nord, quanto sta accadendo in Sudan è inimmaginabile. Immense macchie di sangue sono state fotografate dallo spazio e per alcuni giorni hanno occupato le prime pagine dei giornali occidentali, poi di nuovo la più grave crisi umanitaria odierna è piombata nel silenzio internazionale. L'Alto Commissario delle Nazioni Unite per i Diritti Umani, Volker Türk, a Ginevra ha ricordato che il conflitto tra paramilitari delle Forze di Supporto Rapido (RSF) e l’esercito regolare (SAF) va avanti da oltre 2 anni, tra uccisioni di massa, esecuzioni per motivi etnici, stupri sistematici, rapimenti, detenzioni arbitrarie. Al pari del vicino Congo, le risorse naturali del Paese sono di interesse di molti aziende e Paesi che traggono profitto da questa situazione di instabilità.

Dalla repressione al collasso istituzionale, dalle guerre dimenticate alle risorse contese, l’Africa centrale e orientale continua a essere teatro di crisi che ricevono attenzione solo quando esplodono. Le istituzioni internazionali continuano a esprimere preoccupazione senza passare ai fatti mentre milioni di persone pagano il prezzo di questa inerzia, ma senza un cambio netto nelle leadership locali e senza pressioni mondiali reali, la spirale non si interromperà. Il vero scandalo, ormai, non è ciò che accade: è che il mondo ci abbia fatto pace.

Miriam Rossi

Miriam Rossi (Viterbo, 1981). Dottoressa di ricerca in Storia delle Relazioni e delle Organizzazioni Internazionali, è esperta di diritti umani, ONU e politica internazionale. Dopo 10 anni nel mondo della ricerca e altrettanti nel settore della cooperazione internazionale (e aver imparato a fare formazione, progettazione e comunicazione), attualmente opera all'interno dell'Università degli studi di Trento per il più ampio trasferimento della conoscenza e del sapere scientifico.

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