La risoluzione che cambia le regole del gioco?

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Immagine da Unsplash.com

Il 17 novembre 2025 il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite ha approvato la risoluzione voluta dagli Stati Uniti che introduce, per la Striscia di Gaza, l’idea di una presenza internazionale di stabilizzazione, un’autorità transitoria e un percorso che sul lungo periodo dovrebbe includere la smilitarizzazione di fazioni armate e la costituzione di un corpo di polizia palestinese. Il voto è passato con l’astensione di Russia e Cina, un segnale politico tutt’altro che marginale: il testo ottiene legittimità formale ma non elimina le divisioni strategiche attorno alla sua applicazione pratica. 

Cosa fa la risoluzione e perché non è solo un atto simbolico

Il contenuto normativo è molto concreto: autorizza lo schieramento di una “Forza Internazionale di Stabilizzazione” (ISF) e prevede la creazione di una Board of Peace, un’autorità di coordinamento per la ricostruzione e la transizione amministrativa. Si parla esplicitamente di disarmo di gruppi armati, di protezione dei civili e di un percorso verso una forma di autodeterminazione palestinese condizionata a riforme e verifiche. Questo sfocia immediatamente in una domanda pratica: chi manda i soldati, chi li comanda e con quale mandato di ingaggio? Senza contributi concreti da parte di Stati membri, la risoluzione resta un’autorizzazione in attesa di forze reali. 

L’effetto immediato a Gaza: speranza e scetticismo

Nella Striscia, la risoluzione è letta in modo polarizzato. Per molti civili e per attori che cercano una tregua duratura, l’idea di corridoi umanitari protetti e di ricostruzione sotto vigilanza internazionale appare come una opportunità necessaria dopo mesi di distruzione. Ma il rifiuto di Hamas — che ha dichiarato che non si disarmerà e che considera la presenza di forze straniere un “parteggiamento” nel conflitto — rende drammaticamente incerta la fase applicativa. Se il gruppo armato non dialoga o addirittura combatte lo sforzo di smilitarizzazione, la ISF rischia di trovarsi immediatamente in un ruolo bellico e non neutrale. 

Cisgiordania: la trama si fa più tesa

In Cisgiordania la risoluzione alimenta due dinamiche opposte. Da una parte il richiamo a un “percorso” di rappresentanza palestinese e a un controllo internazionale può essere accolto dai segmenti pragmatici della leadership palestinese come l’avvio di una ricucitura istituzionale tra Gaza e West Bank. Dall’altra, l’ennesimo intervento dall’esterno rischia di inasprire tensioni già esplosive: gli insediamenti, la violenza dei coloni e le operazioni di sicurezza israeliane non cessano, e ogni percezione di favoritismo straniero può tradursi in ondate di protesta, scontri e repressione. Nel breve periodo, dunque, la Cisgiordania rischia di vedere un aumento della polarizzazione e degli incidenti, con ripercussioni sull’ordine pubblico che possono estendersi ben oltre i suoi confini. 

Israel: calcoli di sicurezza e fratture interne

A Tel Aviv la risoluzione è accolta con reazioni miste. La leadership di governo, pur rassicurata dalla prospettiva della rimozione delle capacità militari di Hamas e dalla promessa di collaborazione per il recupero degli ostaggi, teme che riferimenti troppo espliciti all’autodeterminazione palestinese possano tradursi in concessioni politiche inaccettabili per l’elettorato di destra. Il dibattito interno è quindi aperto: sostegno tattico all’intervento internazionale se questo rafforza la sicurezza; avversione se percepito come preludio a limitazioni di manovra israeliane. Sul piano operativo, Israele è chiamato a cooperare su punti logistici e di accesso — condizione che può però essere strumentale a imporre limiti alla reale autonomia della missione. 

L’effetto domino regionale: attori che pesano e reazioni a catena

La risoluzione non si gioca solo a Gaza. Il Libano e Hezbollah osservano con attenzione: un eventuale scontro tra forze internazionali e gruppi palestinesi potrebbe innescare reazioni sul confine settentrionale, riaccendendo il rischio di escalation con Beirut. L’Iran, che sostiene attori armati nella regione, farà i suoi calcoli puntando a sfruttare il malcontento anti-occidentale; la Turchia, la Giordania e alcuni Paesi del Golfo si sono mossi in tandem diplomatico prima del voto, ma la loro coesione rimane fragile. L’astensione di Mosca e Pechino segnala inoltre che la partita non è esclusivamente occidentale: una risoluzione che scivoli nel controllo politico rischia di amplificare contrapposizioni diplomatiche globali. 

Le condizioni pratiche del successo: cinque nodi critici

Perché la risoluzione traduca in stabilità e non in nuova instabilità, servono condizioni non scontate. Occorrono contributi militari e di polizia concreti e coordinati, chiarimenti sulle regole d’ingaggio per evitare incidenti, un piano credibile di coinvolgimento delle autorità palestinesi legittime e, infine, garanzie di neutralità percepita dalla popolazione locale. Inoltre è necessario un accordo operativo con Egitto e Israele per accessi e logistica: senza queste intese il mandato rischia di essere teorico. Senza questi tasselli, il rischio di fallimento politico ed operativo è alto. 

Scenari plausibili e tempi di reazione

Nel migliore dei mondi la ISF entra con un mix di unità di polizia internazionale e team logistici che garantiscono corridoi per aiuti, limitano la violenza e creano spazio per una ricostruzione gestita in parte da attori palestinesi ricostituiti. Nel peggiore delle possibilità, l’assenza di dialogo con Hamas e la carenza di forze pronte a intervenire conducono a tentativi di smilitarizzazione forzata, scontri e un amplificarsi della crisi umanitaria e regionale. È realistico pensare che si muoverà su una linea di mezzo: dispiegamenti graduali, zone sotto tutela diversa e una convivenza instabile che richiederà anni per dirsi consolidata. 

Conclusione: una risoluzione che è un bivio

Questa risoluzione segna un bivio politico e operativo. Per la prima volta l’Onu ha autorizzato un passo che intende incidere direttamente sulla composizione armata interna della Striscia e sull’architettura amministrativa post-bellica. Ma il vero nodo resta l’attuazione: la politica internazionale ha votato, ora deve mettere piedi, mezzi e testa su un terreno minato di sensibilità nazionali, militari e umanitarie. Senza una combinazione di contributi concreti, negoziazione con interlocutori locali e cura della percezione popolare, il rischio è che quello che sulla carta appare come l’inizio di una transizione diventi invece il pretesto per una nuova fase di scontro. Il Medio Oriente non guarda soltanto a Gaza: guarda a come la comunità internazionale saprà trasformare una risoluzione in stabilità, o in un nuovo campo di battaglia diplomatico.

Di Giacomo Cioni

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