Il Punto - ll Mondo si muove per accaparrarsi risorse e qualcuno resta schiacciato

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Immagine: Unsplash.com

Anche questa lotta è parte del Risiko mondiale. Si gioca sul tavolo del Mondo, ma senza colori vivaci e senza dadi da lanciare. Qui le pedine sono miniere, deserti, porti, lavoratori dimenticati. E il premio finale è un futuro energetico che promette di essere pulito per pochi e solo grazie alle vecchie logiche di sfruttamento. La corsa ai minerali critici – litio, cobalto, nickel, rame, terre rare – è la nuova frontiera del potere globale. E come sempre, quando il Mondo si muove per accaparrarsi risorse, qualcuno resta schiacciato.

La storia comincia nei deserti bianchi del Cile e dell’Argentina, dove il litio dormiva per millenni sotto la crosta di sale. Oggi è diventato la chiave delle batterie, dei veicoli elettrici, delle promesse di un “domani sostenibile”. Le compagnie multinazionali arrivano con i macchinari, pompano acqua dalle falde, trasformano le saline in enormi bacini chimici. Le comunità indigene osservano le lagune prosciugarsi. Raccontano che i fenicotteri, un tempo padroni del silenzio, si vedono sempre meno. È il primo effetto collaterale della rivoluzione verde.

Dall’altra parte del Mondo, nelle foreste del Congo, il cobalto viene grattato dal terreno con le mani. È un lavoro duro e sporco. Ci sono uomini, donne, talvolta bambini che entrano in tunnel instabili, scavano per ore, respirano polvere metallica. Il cobalto serve a tutti: alle industrie europee, alle fabbriche asiatiche, alle catene del valore che alimentano la vita digitale. Ma pochi, quasi nessuno, conosce il prezzo umano nascosto in ogni grammo.

Il dito corre sul planisfero, la partita di Risiko diventa evidente. La Cina controlla gran parte della raffinazione mondiale. Può decidere quanto produrre, a che prezzo, a chi vendere. È come occupare Kamchatka e Asia con una sola mossa: gli altri restano a guardare, sapendo che il vantaggio strategico è enorme. Stati Uniti ed Europa provano a riorientare la filiera, a riportare a casa pezzi di produzione, a cercare alleanze che riducano la dipendenza. Ma scontano decenni di miopia, anni in cui hanno lasciato che fossero altri a sporcarsi le mani, mentre loro si limitavano a comprare.

Intanto, in Indonesia, il nickel viene estratto in quantità mai viste. Le miniere consumano foreste tropicali, aprono crateri dove prima c’erano ecosistemi complessi. E la dimostrazione di come la “transizione green” stia creando nuove disuguaglianze. Sono le economie forti, cioè in nuovi “centri imperiali” a condurre il gioco, sfruttando le periferie  per mantenere il loro benessere. Il cambiamento climatico viene affrontato senza risolvere i problemi, ma puntando ai rimedi tecnologici che facciano star bene la popolazione dei Paesi ricchi. Così, per produrre tecnologie pulite e che creino comfort, si accelera la distruzione degli ambienti che dovrebbero proteggerci. Ogni territorio coinvolto diventa una tessera del mosaico di guerra e scontro, un punto strategico che sposta gli equilibri globali.

Nelle capitali del Mondo si parla di sicurezza delle catene di approvvigionamento, di autonomia energetica, di transizione sostenibile. Parole precise, che suonano bene nei comunicati ufficiali. Ma nei fatti la corsa ai minerali rischia di diventare una nuova guerra, combattuta invadendo territori e militarizzandoli oppure  a colpi di concessioni minerarie, pressioni diplomatiche, investimenti mirati e, talvolta, interferenze politiche. Gli effetti sono  potenzialmente devastanti.

Molti osservatori sostengono che esiste una strada diversa. È nelle tecnologie a minor consumo di materiali, nel riciclo sistematico – oggi ancora troppo marginale –, nella riduzione della domanda. Ma soprattutto in un cambio di visione: capire che non basta sostituire il carburante. Bisogna ripensare il modello. La transizione ecologica è presentata come un viaggio verso un futuro migliore. Ma, per ora, è un viaggio riservato agli “abitanti degli imperi”, che si sono moltiplicati sull’onda delle nuove economie forti. Così, non solo Stati Uniti, Cina, Paesi dell’Unione Europea, Russia, ma anche India, Pakistan, Brasile, Sud Africa, Turchia  concorrono a sfruttare territori e persone, creando nuove e pericolose disuguaglianze planetarie.

Il futuro “green” rischia di non essere diverso dal passato. Sarà solo dipinto di verde, ma costruito con le stesse vecchie regole del gioco. E allora, davvero, non avremo cambiato nulla. Nemmeno la forma dei nostri carroarmatini sul planisfero del Risiko.

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