La guerra fa male anche alla Terra

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Si stima che la guerra a Gaza abbia ucciso, in questi ultimi tragici mesi di ripresa violenta, oltre 25 mila persone e ne abbia forzatamente rese sfollate a migliaia. La sofferenza umana è incalcolabile. Ma il danno alla Terra, quello sì lo possiamo calcolare. E per la precisione ha provato a farlo un’analisi in collaborazione tra la Queen Mary University of London, l’Università di Durham e l’Università di Lancaster: il gruppo di ricercatori, il cui studio è in attesa di peer review, ha stimato le emissioni di gas serra del conflitto in Medio Oriente: i bombardamenti aerei di Israele e gli attacchi via terra nella Striscia hanno generato nei soli primi due mesi di conflitto l’equivalente di 281 mila tonnellate di CO2… come bruciare 150 mila tonnellate di carbone.

Le forze armate sarebbero responsabili, secondo un report del 2022 (che ad oggi non può che aggiornare il quadro in maniera peggiorativa) del 5,5% delle emissioni annuali di gas serra che alimentano drasticamente la velocità del cambiamento climatico, più di quanto ne sia responsabile la somma di tutti i voli civili e commerciali. Il condizionale è d’obbligo solo perché non esiste una certezza assoluta a riguardo: jet, tank e portaerei sono emettitori di carbonio decisamente rilevanti, eppure ancora coperti da un velo di impunità rispetto al loro impatto ambientale, come sottolinea Jack Marley, editorialista su temi ambientali ed energetici di The Conversation. 

Quindi, quanto impatta la guerra sulla Terra? Uno studio del 2019 aveva quantificato l’impatto delle sole forze armate statunitensi (che pure sono le più consistenti nella storia mondiale) calcolando quanti combustibili fossili divorano. Ne è risultato che la milizia statunitense è la più grande consumatrice istituzionale di idrocarburi (carbone, petrolio e gas), affermano i ricercatori. “Se il corpo militare statunitense fosse una nazione, il suo utilizzo di combustibili la renderebbe la 47esima maggiore emettitrice di gas serra al mondo, tra Perù e Portogallo”.

Bruciare combustibili nei serbatoi degli aerei e gasolio nei tank non è l’unico modo in cui i militari provocano il surriscaldamento climatico. I ricercatori hanno comparato le emissioni con le stesse categorie con cui vengono calcolate quelle del commercio: dall’ingegneria per la costruzione dei mezzi, al riscaldamento e all’energia per i quartieri generali, gli accampamenti e altre stazioni di stanza, dai rifornimenti di mezzi, strumenti, armi e altre necessità logistiche a una quarta categoria considerata ad hoc, che riguarda i danni provocati e i costi della ricostruzione. 

L’analisi dei costi ambientali per la guerra in Iraq porta dati spaventosi rispetto al consumo di calcestruzzo utilizzato per esempio per proteggere i checkpoint e le strade: tra il 2003 e il 2011 la quantità utilizzata a Baghdad copriva una distanza più o meno analoga a quella tra Londra e Parigi. E chissà a quanto ammonteranno i costi per ricostruire Mariupol o Gaza… I dati, purtroppo, non sono di facile accesso e raccolta, come sottolinea il ricercatore Benjamin Neimark che ha guidato lo studio basandosi anche su guerre passate, per le quali invece è stato relativamente più facile reperire dettagli. Su quelle in corso avere informazioni è davvero complicato e né il Pentagono né i vari dipartimenti governativi sono collaborativi – i dati a cui rimandano sono le emissioni del 1997 del Protocollo di Kyoto.

Quella militare è l’unica industria che, diversamente da tutte le altre, non ha nessun obbligo di riportare i dati rispetto alle proprie emissioni in sede di Nazioni Unite, continuando a farsi beffe delle negoziazioni internazionali come le COP: è inevitabile quindi che il quadro delineato da questa ricerca risulti incompleto. Non esiste consenso rispetto alle emissioni da considerare e quindi un sottodimensionamento dei dati è molto diffuso. Il Canada, per esempio, include le emissioni dei voli militari nel calcolo dei trasporti generali e non esiste un conteggio separato per le carneficine causate da bombe e tank nelle foreste o in altri sistemi ricchi di carbonio.

Di fatto la ricerca mette in luce un’urgenza fondamentale: “L’azione sul cambiamento climatico richiede di alzare le serrande su una vastissima fetta della macchina militare, poiché esistono davvero pochissime altre attività sulla Terra con conseguenze a livello ambientale disastrose come quelle provocate dalla guerra”. Quello che sta succedendo a Gaza o in Ucraina e purtroppo ancora anche in moltissime altre aree del mondo, sta annullando, oltre a troppe innocenti e risparmiabili vite, anche qualunque sforzo che a livello mondiale venga messo in atto per ridurre le emissioni di gas serra.

La conclusione parrebbe ovvia, a noi comuni mortali: com’è possibile che chiedano a noi di investire, faccio solo un esempio, sull’energia pulita (anche con auto elettriche e viaggi più sostenibili), quando accompagnare velocemente il mondo verso la pace sarebbe il modo più urgente ed efficace per avere allo stesso tempo anche un consistente contenimento delle cause che provocano le gravi condizioni ambientali in cui versiamo? Questo non deve ovviamente indurci a non fare più nulla di ciò che è in nostro potere per contribuire alla riduzione delle emissioni, ma ci invita in maniera molto concreta e cruda ad aprire gli occhi sulla realtà globale, soprattutto quando scegliamo chi votare e per cosa manifestare il nostro dissenso.

Anna Molinari

Giornalista freelance e formatrice, laureata in Scienze filosofiche, collabora con diverse realtà sui temi della comunicazione ambientale. Gestisce il progetto indipendente www.ecoselvatica.it per la divulgazione filosofica in natura attraverso laboratori e approfondimenti. È istruttrice CSEN di Forest Bathing. Ha pubblicato i libri Ventodentro (2020) e Come perla in conchiglia (2024). Per la testata si occupa principalmente di tematiche legate a fauna selvatica, aree protette e tutela del territorio e delle comunità locali.

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