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L’inclusione sociale all’esame dell’Impact Investing
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Nel mio ultimo articolo avevo parlato del ruolo e del contesto in cui opera una ONG in un paese emergente, portando l’esempio di Alterna, una ONG attiva nel campo dell’incubazione e accelerazione di imprese sociali in Guatemala. Avevo poi concluso l’articolo con una riflessione, lasciata intenzionalmente in sospeso: quale dovrebbe essere il labile confine tra le premesse nobili e ambiziose di una IONG (International ONG) e la tendenza a esportare teorie di sviluppo tipicamente occidentali, in luoghi dove regnano ancora tradizioni e costumi antichi? In altre parole, fino a che punto la presenza di Alterna è considerata di vero beneficio per la comunità locale, e non di disturbo o invasiva nei confronti dei suoi equilibri culturali e sociali?
C’è chi pensa che Alterna legittimamente abbia tutta la libertà di aprire le sue porte in Guatemala e di proliferare con le sue attività socio-ambientali. Certo, non stiamo parlando di multinazionali senza scrupoli, ma di organizzazioni che, a loro modo, si pongono l’obiettivo di combattere la povertà e di fornire bisogni basilari ad individui che si trovano alla base della piramide societaria. Attività che per molti versi non avrebbero senso in paesi industrializzati, o, meglio, non avrebbero la stessa potenzialità di radicarsi e creare altrettanto impatto nelle vite delle persone. Inoltre, pur mantenendo un modello di business fortememente dipendente da donazioni o “alterazioni” del mercato liberisticamente inteso, una IONG ha tutte le ragioni di cercare di trarre anche giovamento economico dalle proprie attività, non a caso si scelgono economie in via di sviluppo. Una mentalità condivisibile, nell’ottica di convertire il proprio modello il più autosostenibile possibile. Ma è altresì indubbio che così facendo ci si avvicini sempre più a un’omologazione dell’approccio aziendale generale, che garantirà nuovo lavoro e un pò di ossigeno alle casse di uno Stato, tuttavia tende ad affermare una gestione “vincente” estera sulle altre, in questo caso, e in molti altri, quella Statunitense.
Si badi che la mia non è una critica alla concezione di IONG, men che meno alle generosissime attività di certe organizzazioni, che abdicano al Dio profitto per inseguire un sogno di prosperità sociale e culturale, che possa essere percepito da tutte le popolazioni di questo mondo, senza distinzioni. La mia è semplicemente un’osservazione e un auspicio che in un futuro prossimo queste organizzazioni, specialmente nel settore dell’innovazione e dell’imprenditorialità sociale, riescano ad integrarsi in maniera più armonica ed efficace, possano vantare dei team più specchio delle società che li accolgono (molti giovani Nordamericani a fatica spiccicano due parole di Spagnolo), e che finalmente le popolazioni locali riscattino la loro condizione. Non dimentichiamoci che di influenza Europea prima e Nordamericana poi ne hanno avuta fin sopra i capelli, senza averla mai chiesta. E tuttora ne soffrono le innumerevoli conseguenze. Immerso nei suoi problemi atavici, un popolo assopito è un popolo domato.
Permane, dunque, un alone di ambiguità oggettiva nell’intervento delle dinamiche occidentali in queste terre, soprattutto quando si parla di investimenti di un certo taglio da parte di fondazioni, rami della cosiddetta filantropia finanziaria o direttamente istituzioni bancarie. Nell’ultimo decennio, con l’ascesa del fenomeno dell’Impact Investing, sono emersi nuovi veicoli e nuove istituzioni ibride al confine tra industria finanziaria e il Terzo Settore, attraverso i quali si sprecano le modalità di investimento in ONG che promuovono social enterprises, social ventures o comunque progetti che abbiano la sostenibilità di un’azienda e la capacità di creare un impatto positivo e un ritorno finanziario. Non stiamo parlando di un mondo fiabesco, ma di realtà, purtroppo ancora in erba, e, come dicevo, soventemente assoggettate a un’amministrazione “ospite”.
Ma allora come si definiscono i criteri di successo di una IONG? Come si dovrebbe interpretare il suo ruolo? Una domanda tutt’altro che pleonastica per la posizione scomoda in cui si trovano tante di queste organizzazioni, spesso costrette a descrivere il proprio settore, quello della cooperazione internazionale, come “ciò che non è”, o “ciò che si cerca di contrastare”. Una delle strade più intraprese è quella di definire delle metriche prevalenti con le quali misurare e avvalorare fedelmente l’impatto che esse sono capaci di generare nelle comunità di pertinenza. Come? Investendo una buona fetta di tempo e di personale alla raccolta di questi dati, ove reperibili, ed alla loro elaborazione in informazioni fruibili. In questo modo tutti gli stakeholder coinvolti, donatori, investitori sociali, gli stessi coordinatori delle ONG dispongono, dati alla mano, di prove materiali a supporto delle proprie attività. Si tratta ormai di un passaggio obbligato per le IONG che vogliono calamitare nuovi fondi e mantenere viva l’attenzione. Alcune metriche sono standardizzate da centri di ricerca specializzati come IRIS, molte altre sono costruite o riadattate in casa per le specificità della IONG. Perchè, come ho letto di recente sul sito di Shared Value Initiative, “le metriche di successo sono il modo in cui trasformiamo la retorica in realtà”.
Percependo tutto questo fermento, non si può non tradire un minimo di emozione: finalmente si è trovata la maniera sicura di investire i propri risparmi facendo del bene e intascando anche qualche guadagno in cambio. Va detto che l’Impact Investing, branchia del Socially Responsible Investing, sta apportando vari vantaggi al settore sociale, non ultimo un movimento di denaro più sostanzioso a favore di progetti sociali ben strutturati e piuttosto trasparenti. Purtroppo, uno degli svantaggi è che le istituzioni nelle quali si investe spesso rimangono avulse dalle radici della povertà più estrema, perchè si rivolgono ad un’economia più evoluta, di individui istruiti ed autosufficienti. Vi sono eccezioni, ma una delle funzioni più congeniali all’investimento a impatto è proprio il consolidamento di un ceto medio, nel quale trova clienti e di conseguenza maggiori beneficiari e possibilità di “scalare” il modello. L’augurio è che le infiltrazioni finanziarie non raggiungano eccessi già visti, e soprattutto che si mantenga un forte contatto con le realtà locali. Perchè la finanziarizzazione dell’economia sociale è un processo già in atto, e un pericolo forse sottovalutato (social bonds). Forse, altro non è che una maniera per i grossi protagonisti bancari mondiali di accaparrarsi i flussi e il controllo di questi nuovi traffici di investimenti. È così che, forse, dietro un’apparenza responsabile, si finisce per mantenere lo status quo delle cose e ti viene da riflettere: alla fine chi lo vuole realmente il cambiamento?
Concludendo, ci si chiede: il settore sociale ha davvero bisogno di una contaminazione capitalistica per imporsi e passare da Terzo Settore a Primo Settore? Secondo me ci si deve sforzare ad andare oltre. La convinzione che la povertà si combatta con le armi del libero mercato ha fatto il suo tempo. L’avvento delle corporations occidentali nei paesi poveri ha creato più desolazione che lavoro, e ha ampliato ancor più le distanze tra il ricco e il povero. Personalmente ritengo che oggi vi siano altre priorità. Come quella di aprire tanti bei ponti per permettere il transito delle comunità e agevolare un’immigrazione educativa al contrario. Così come quella di favorire la metamorfosi di un settore composto da una nicchia di benefattori a una fucina mondiale di cervelli accomunati da un senso di cooperazione e non di competizione, capaci di generare le fondamenta di una nuova economia e di una crescita qualitativa e solidale. Anche così si può e si deve arrivare alla fine del mese.