L’Uganda che accoglie rifugiati

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Tentare di affrontare una nuova esistenza in Uganda. Così da anni lo stanno facendo quasi un milione e mezzo di rifugiati, spesso sud-sudanesi scampati dalle violenze indicibili di un conflitto interno scoppiato nel 2013 e ancora in corso, ma anche congolesi fuggiti da sbandate milizie armate a cui il governo centrale di Kinshasa non riesce a porre rimedio, nonché da Etiopia e Somalia, seppur in numeri ridotti. Consapevoli di cosa ci si sta lasciando alle spalle, l’Uganda appare un paradiso in termini di libertà, sicurezza e anche accoglienza nonostante si collochi al 162° posto dell’indice di Sviluppo Umano (su 187 Paesi).

Guidata da oltre un trentennio dal presidente Yoweri Kaguta Museveni, il Paese ha oggi compreso quanto l’economia e i servizi sociali possono essere stimolati dalla domanda di migliaia di uomini-donne-bambini senza più nulla in mano ma desiderosi di rifarsi una vita. Gli aiuti internazionali, gestiti principalmente dall’Alto Commissariato ONU per i Rifugiati (UNHCR), entrano nel Paese e ne beneficiano anche gli stessi ugandesi, non solo perché sono chiamati a lavorare per organizzare l’accoglienza (e dunque sicuramente c’è bisogno di maggiori quantità di cibo, abbigliamento, servizi scolastici, trasporti e alloggi), ma anche perché i servizi sanitari, i sistemi di fognature e di acqua potabile, le scuole costruite dove si trovano i campi profughi, sono parzialmente destinati anche alle popolazioni locali. Un 30% degli aiuti internazionali in ingresso, per legge, contribuiscono ad assicurare nuove infrastrutture di cui beneficiano anche i cittadini ugandesi, in un Paese nient’affatto ricco. Non genera, quindi, frizione l’apporto di un gran numero di stranieri nel Paese né l’iter di accoglienza ugandese che è stato messo in piedi, destinato non solo ad accogliere ma a integrare il rifugiato nel tessuto sociale locale. Alla registrazione e collocazione in tendopoli del rifugiato segue, oltre alla garanzia di cibo e supporto sanitario gratuiti, la cessione di un pezzo di terra per poterlo coltivare e costruirsi un alloggio, così come definito secondo accordi con clan locali e governo. Tantomeno non desta allarme pubblico il rifugiato che cerca lavoro e che si muove liberamente per il Paese, specialmente in un territorio laddove i confini sono percepiti come estranei, tracciati a tavolino dai colonialisti con poca attenzione all’effettiva localizzazione di quelle che possono essere intese come nazioni.

C’è tutto da guadagnare quindi con l’accoglienza. Non si tratta di “propaganda buonista”, come con disprezzo sono oggi spesso definite le politiche di accoglienza di qualche Paese europeo. E non saranno le falle della sicurezza dei grandi campi profughi o gli episodi di corruzione collegati all’apporto di denaro straniero a determinare un cambio di rotta di questa risorsa della comunità locale. Tuttavia è chiaro che non è tutto oro quel che luccica: a volte i terreni assegnati ai rifugiati non sono coltivabili, l’aumento della corruzione amministrativa gonfiando il numero dei profughi/rifugiati è una realtà, si registrano episodi di violenza e delinquenza all’interno degli sterminati campi di accoglienza, agli occhi internazionali la figura del presidente Museveni appare riabilitata sembrando sopire le accuse di utilizzo di metodi antidemocratici e autoritari per restare al potere. Di pochi giorni fa la notizia dell’arresto di una troupe di giornalisti dell’emittente britannica BBC,rea di condurre un servizio sulla vendita illegale di droga nel Paese, che rimette all’attenzione mondiale il problema del limitato godimento delle libertà civile in Uganda. Stupefacenti così come bracconaggio di specie protette trovano ampi spazi di manovra non solo in Uganda, ma nell’intera Regione, avvalendosi dell’instabilità dell’area, e contribuiscono a fomentarla tramite accordi con milizie irregolari con il compiacente assenso di funzionari compiacenti corrotti

Tutti problemi e questioni che talvolta sollevano animosità nel Paese. È chiara, però, la consapevolezza che il problema non sia il rifugiato presente in Uganda: non è il rifugiato ad aver avallato un regime politico poco democratico e rispettoso dei diritti umani. Non è il rifugiato a creare instabilità, anzi è egli vittima di manovre di politiche internazionali di cui sono protagonisti capi di Stato e oppositori, gruppi di potere economici, milizie armate allo sbando, terroristi. Non è il rifugiato a determinare impoverimento dei terreni, siccità e inquinamento che limitano la produzione alimentare ma scelte poco oculate di ciascun individuo e le conseguenze dei cambiamenti climatici in corso. Non è ancora il rifugiato a essere di default un delinquente ma sono le sue fragilità economiche e sociali a essere abilmente sfruttate. 

Gli ugandesi lo hanno capito. Quando la lezione sarà appresa nella Vecchia Europa?

Miriam Rossi

Miriam Rossi (Viterbo, 1981). Dottoressa di ricerca in Storia delle Relazioni e delle Organizzazioni Internazionali, è esperta di diritti umani, ONU e politica internazionale. Dopo 10 anni nel mondo della ricerca e altrettanti nel settore della cooperazione internazionale (e aver imparato a fare formazione, progettazione e comunicazione), attualmente opera all'interno dell'Università degli studi di Trento per il più ampio trasferimento della conoscenza e del sapere scientifico.

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