India, a rischio la libertà religiosa?

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La sveglia con il canto del muezzin che chiama i fedeli in moschea; la pooja, la preghiera hindu che profuma di gelsomini e incensi e campanelli; pochi metri più in là la piccola chiesa con canti e candele. La complessità dell'India e la capacità di far convivere nello stesso tempo idee, filosofie, religioni differenti in un flusso continuo in cui tutto è uno è la forza di questo Paese, la più grande democrazia del mondo: 1 miliardo, 220 mila persone e una vocazione spiccatamente pluralistica.

Come diceva Gandhi: “La religione è un albero con molti rami. Come rami le religioni sono molte, ma come albero, la religione è solo una”. In India la maggioranza è hindu, con circa l'85%, i musulmani sono circa 120 milioni e i cristiani 25 milioni. Poi ci sono Sikh, buddhisti, jainisti. La popolazione celebra le rispettive feste e in generale il clima è di profondo rispetto, una celebrazione continua della complessità. Ma a livelli più alti, ecco problemi e conflitti.

La Commissione Usa per la libertà religiosa nel mondo ha appena presentato il Rapporto 2015 sul subcontinente in cui dichiara: “Dalle elezioni dello scorso anno, le minoranze religiose hanno subito un aumento di attacchi e di violenze verbali. Il governo non fa abbastanza per fermarle”.

La reazione indiana non si è fatta attendere: “Il Rapporto si basa su una comprensione limitata dell’India, della sua Costituzione e della sua società. Noi non abbiamo intenzione di recepirlo”. In questo modo ha ribattuto, secondo l'agenzia Asia News, il portavoce del ministero indiano degli Esteri, Vikas Swarup, dopo la presentazione del testo al Parlamento americano. Di certo comprendere la molteplicità di un Paese così vasto, complesso e variegato non è cosa semplice.

Secondo gli esperti interpellati dalla Commissione, dalle elezioni generali dello scorso anno e la conseguente vittoria del premier Modi “sono aumentati gli attacchi compiuti da estremisti indù contro le minoranze religiose. Inoltre si sono moltiplicati i commenti sprezzanti e discriminatori da parte di politici collegati al Bharatiya Janata Party al governo, che non vengono sanzionati per il loro comportamento”. Fra i movimenti hindu nazionalisti accusati di violente conversioni forzate sono nominati il Rashtriya Swayamsevak Sangh e il Vishva Hindu Parishad. Le violazioni sono avvenute ai danni di cristiani, musulmani e sikh.

Fra i casi citati dal documento vi è il piano di “riconvertire” quattromila famiglie cristiane e mille famiglie musulmane all’induismo in Uttar Pradesh il giorno di Natale. La pratica, nota come “Ghar wapsi” (“ritorno a casa”), è uno dei pilastri della politica radicale hindutva, secondo la quale “ogni indiano deve essere indù”. Per la Commissione, questi comportamenti “violano lo status della nazione. Nonostante si professi pluralista, democratica e secolare, l’India non riesce a proteggere le comunità religiose di minoranze. Continua un clima di impunità per coloro che le attaccano”.

Nello stesso report si legge però anche che “la posizione del Primo Ministro Narendra Modi sulla tolleranza religiosa nei confronti dei cristiani sta vivendo un positivo sviluppo”. 

E contemporaneamente che “la polizia locale, spesso, consiglia ai cristiani di nascondere il proprio credo. La Evangelical Fellowship ha denunciato 38 incidenti a Chiese e scuole. Per quanto riguarda i musulmani l'accusa è spesso di violenza o di uccidere le mucche, sacre per gli hinduisti, il giorno del Sacrificio”. Una complessità quindi che poco si concilia con forme di rigidità.

La Commissione è nata nel 1998 come indipendente e bipartisan ed è stata responsabile del negare il visto a Modi dopo i disordini in Gujarat nel 2002. Anche il Presidente Barack Obama ha ricordato in più occasioni l'importanza di rispettare la libertà religiosa e l'articolo 25 della Costituzione Indiana.

Francesca Rosso

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