Il paesaggio non resuscita

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Foto: Unsplash

La velocità del cambiamento consumista, con la produzione smisurata di merci e infrastrutture, ha devastato ovunque il paesaggio. E il paesaggio non torna in vita. La questione è nota, eppure non ci fermiamo mai abbastanza a ragionare di quanto la velocità sia la vera ossessione del capitalismo e della sua invenzione, il consumismo, che non sembra conoscere congiunture. Intanto apprendiamo che il consumo di suolo aumenta – in Italia ne mangiamo ormai 2,4 metri quadrati al secondo – e ci sembra impossibile pensare che ci siano persone che hanno imparato a nuotare nel Po… Scrive Daniele Ferro, mentre osserva dal treno la costa ligure: “Chi è cresciuto prima o agli albori del consumismo, chi vive in luoghi ancora non stuprati, chi possiede meravigliosi ricordi di quotidianità con la natura; ve ne prego: scrivete, scrivete tutto…”

«Un fastidio che non sapeva bene neanche lui. Erano le case: tutti questi nuovi fabbricati che tiravano su […] facevano a chi monta sulle spalle dell’altro». Da anni, quando vado in Liguria, sul treno e in acqua mi chiedo quale beatitudine agli occhi fosse un tempo la costa, e mi addoloro, stupido, per il paesaggio perduto; mi appare Capo di Noli di Signac, e immagino il viaggio in barca del pittore dalla Costa azzurra, i suoi sguardi che non possono più essere i nostri. E poi ho letto per caso: il sanremese Calvino, in treno per il ponente ligure, non riconosceva più la sua terra. Così all’apparizione del pittore in mare mi s’è aggiunto lo scrittore sul vagone, e mi sento meno stupido, e comparo la mia malinconia al dolore di chi, in quella riviera, vi crebbe. Calvino lo affrontò – insieme al «fastidio» – con La speculazione edilizia; l’ho scoperto solo in una recente, inquieta visita a Sanremo.

Lo scempio ligure, nelle fondamenta della febbrona edilizia che coinvolse l’intero Paese, è il medesimo del nostro attuale e ubiquo stile di vita.

La velocità del cambiamento consumista, con la produzione smisurata di merci e infrastrutture – sospinta dal sistema mediatico e tecnologico – ha ucciso nel secondo Novecento un paesaggio naturale e culturale. E il paesaggio non resuscita: stop, finito. In un lampo di Storia.

Su tale aspetto mi sento molto meno ricco di chi ha vissuto infanzie bucoliche prima e dopo la seconda guerra mondiale.

Sul giornale locale della mia cittadina di provincia, un novantenne ha raccontato ciò che si faceva nel Dopoguerra per la festa di Pietro e Paolo del 29 giugno: si mettevano in cammino accarezzando la rugiada all’alba, dalla città su per le colline, rinfrescandosi a sorgenti oggi abbandonate. La merenda stesi sui prati diveniva un cibarsi e un sentire ampio, in origine legato alle celebrazioni del solstizio.

Ateo, credo nei guai in cui ci caccia il potere delle religioni, ma sono certo di uno tra i danni causati dal capital-consumismo: ha crocifisso i riti “cristiani”, coi quali la Chiesa s’impadronì di quelli pagani connessi ai cicli naturali, e ci ha lasciato orfani.

Non abbiamo più riti popolari in cui accomunarci a chinare il capo dinanzi alla bellezza e malignità incommensurabili della natura e dell’esistenza.

Uno dei più cari ricordi da adolescente scout Agesci, era il ritrovarsi a cantare in cerchio intorno al fuoco, prima di infilarci in tenda: «Scende la sera e distende il suo mantello di vel, ed il campo calmo e silente si raccoglie nel mister…». Già allora in un dio non ci credevo, ma un riferimento mariano che c’era in quel canto non mi dava alcun “fastidio”, perché quello stare insieme sotto le stelle sovrane, dei boschi e di noi, m’infondeva l’animo di fiducia, gratitudine e rispetto per il cosmo e l’umanità: la «vergine di luce» diventava per me Madrenatura...

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