Il nemico nel piatto: cosa sapere dei cibi ultraprocessati

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Foto: Unsplash.com

Il termine "cibi ultraprocessati" (UPF) nasce nella metà degli anni '90: noti per essere associati a obesità e malattie metaboliche, negli ultimi anni si sono anche posti al centro di un dibattito sulla loro possibile capacità di causare dipendenza, in modo simile a quanto avviene per le sostanze d'abuso.

Gli anni dal 2016 al 2025 sono stati designati dall'ONU come Decennio della Nutrizione, contro le minacce multiple a sistemi, forniture e sicurezza alimentari e, quindi, alla salute umana e alla biosfera; può rientrare nell'iniziativa cercare di capire quali alimenti contribuiscano alla salute e al benessere e quali siano malsani. Fin dalla preistoria, gli esseri umani hanno elaborato il cibo per renderlo sicuro, gradevole al palato e conservabile a lungo; questa propensione ha toccato il culmine, nel mezzo secolo trascorso, con l'avvento dei cibi ultraprocessati (UPF).

Dalla definizione degli UPF alla classificazione Nova

Il termine è stato introdotto nella letteratura scientifica dall'epidemiologo nutrizionista Carlos Augusto Monteiro, dell'Università di São Paulo che, a metà degli anni Novanta, notando un preoccupante aumento dell'obesità infantile, esaminò i dati degli acquisti alimentari delle famiglie brasiliane e scoprì che, rispetto agli anni precedenti, erano stati acquistati meno zucchero, sale, oli da cucina e prodotti di base (come riso e fagioli) e più cibi lavorati come bibite, salsicce, noodles istantanei, pane confezionato e biscotti. Monteiro sviluppò un sistema di classificazione alimentare chiamato Nova, poi adottato da ricercatori in tutto il mondo, che divide gli alimenti in base alla natura, all'entità e allo scopo della lavorazione: in minimamente lavorati (frutta e verdura fresca o congelata, fagioli, lenticchie, carne, pollame, pesce, uova, latte, yogurt bianco, riso, pasta, farina di mais, caffè, tè, erbe e spezie), ingredienti culinari trasformati (oli da cucina, burro, zucchero, miele, aceto e sale), cibi trasformati (realizzati combinando alimenti della categoria 1 con ingredienti della categoria 2 e preparati per la conservazione) e, infine, formulazioni industriali. Queste ultime sono realizzate, attraverso una serie di processi (da qui "ultra-processate"), interamente o principalmente da sostanze estratte da alimenti (oli, grassi, zucchero, amido e proteine), oppure derivate da costituenti alimentari (grassi idrogenati e amido modificato), oppure sintetizzate in laboratorio da substrati alimentari o da altre fonti organiche (esaltatori di sapore, coloranti e diversi additivi alimentari utilizzati per rendere il prodotto iper-palatabile).

La categoria degli UPF è ampia: contiene prodotti convenzionalmente "non sani" come bibite, caramelle e hot dog, e alcuni considerati "sani" come pane integrale, cereali per la colazione, yogurt aromatizzati e latte vegetale. Anche la misura del loro consumo è molto diversificata a livello globale: gli UPF attualmente forniscono quasi o più della metà delle calorie nelle diete nei paesi sviluppati come Canada (47%), Stati Uniti (60%) e Regno Unito (57%), con percentuali inferiori ma in aumento nei paesi a medio reddito come il Brasile (20%) e nei paesi europei con forti culture alimentari. Mentre nei paesi ad alto reddito è segnalata un'associazione inversa tra consumo di alimenti ultra-processati e indicatori di posizione socio-economica (per il basso costo, l'elevata disponibilità e il marketing martellante), un tempo era vero il contrario nei paesi a basso reddito. In questi, però, il dato è in rapido cambiamento: molte aziende che producono alimenti ultra-processati hanno una presenza globale e rivolgono l'offerta ai paesi poveri, essendosi avviatosi alla saturazione il mercato in quelli ricchi. Di ciò è esempio lampante la Coca-Cola, che ha investito più di 1 miliardo di dollari l’anno in Cina, Brasile, Messico e Africa attorno al 2010...

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