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Il mare colore veleno, libro-denuncia di Lo Verso sulla costa più inquinata della Sicilia
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Foto: Copertina de "Il mare colore veleno" (dettaglio)
Il quadrilatero della morte. È stato ribattezzato così quel tratto della costa siciliana che va da Augusta a Siracusa, passando per Melilli e Priolo Gargallo. È lì che si trova il polo petrolchimico più grande d’Italia, il secondo in Europa.
In quei trenta chilometri di territorio si trovano tre impianti di raffinazione petrolifera, due stabilimenti chimici, tre centrali elettriche, un cementificio, due fabbriche di gas industriale e diverse aziende dell’indotto.
Negli anni sono stati diversi gli avvicendamenti che hanno portato le aziende di quell’area a cambiare ragione sociale e proprietà: oggi il polo petrolchimico è in mano a Versalis (ex Eni), all’algerina Sonatrach, alla sudafricana Sasol e al colosso russo Lukoil.
Come racconta il giornalista Fabio Lo Verso in “Il mare colore veleno” (Fazi Editore), in quel tratto di costa – quello che Tomasi di Lampedusa definiva «il più bel posto della Sicilia» – da oltre cinquant’anni la popolazione convive con veleni industriali di ogni tipo che hanno contaminato il mare, la terra, l’aria e le falde acquifere.
Il mare colore veleno, storia di un disastro ambientale
Fabio Lo Verso è siciliano, di Palermo, ma da quando aveva vent’anni vive a Ginevra, in Svizzera. Del polo petrolchimico del Siracusano aveva sentito parlare quando era un ragazzino. Il padre ripeteva spesso che era meglio lavorare poco a Palermo che spaccarsi la schiena per 12 ore al giorno nelle dannatissime fabbriche di petrolio di Siracusa.
«Avevo dodici anni, ero, come ogni bambino, facilmente impressionabile. Da allora si è incisa come una tacca nell’animo la sciocca credenza che all’altro capo della Sicilia ci fosse una sorta di inferno, in cui finiva chi a Palermo rimaneva disoccupato», scrive Lo Verso nell’introduzione de “Il mare colore veleno”.
Le “dannatissime fabbriche” di cui parlava il padre, Lo Verso le ha viste da vicino durante il servizio militare – trascorse qualche mese su una nave della Marina militare di stanza nella base di Augusta – ed è stato allora che ha scoperto che «gli operai in tuta blu apparivano stanchi ma sorridenti ai cancelli delle fabbriche dove mi ero appostato per rendermi conto della loro vita. Così svanì il mio tormento di ragazzino».
Ci è poi tornato come giornalista durante il sopralluogo fatto prima di scrivere “Il mare colore veleno” e si è reso conto che «in quel posto c’era davvero una dimensione da girone dantesco».
Quello che emerge nelle oltre 200 pagine del suo reportage è, infatti, un disastro ambientale e sanitario di proporzioni incalcolabili...