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Il cesto marcio
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Foto: Comune-info.net
I fatti del carcere di Santa Maria Capua Vetere, oggetto della cronaca di questi giorni, che parlano di vessazioni a danno dei detenuti, fanno riferimento ai uno dei tanti modi in cui si declina il concetto di tortura. Tortura che, in Italia, è considerata reato dal luglio del 2017, con l’entrata in vigore della legge al riguardo, la cui discussione si era protratta per quasi trent’anni, anni irti di una infinità di ostacoli, da leggere come riferiti a un’innegabile diffusa giustificazione dei comportamenti aggressivi che possono avere luogo ad opera dei tutori dell’ordine a danno dei cittadini, detenuti o meno che siano.
La storia della tortura è antichissima e ben documentata dagli studiosi. Limitando l’ottica solo ai tempi più recenti, l’idea di fondo che le carceri siano quasi per loro stessa natura luoghi di prepotenza e prevaricazione tra i detenuti e sui detenuti, è stata supportata anche da un’enorme filmografia, che, di certo comprende titoli atti a soddisfare, con la messa in onda di una sadismo fuori controllo, i bisogni voyeristici e morbosi di una vasta porzione di pubblico. Ma anche opere importanti, di esplicita denuncia di un sistema malato, divenute in modi diversi dei cult-movies dalle più svariate ambientazioni: tanto per citare Papillon (1974; Guyana francese); Fuga di mezzanotte (1978; Turchia) ; Nel nome del padre (1993) e Hunger (2008; Irlanda del nord). Solo l’imbarazzo della scelta per quanto riguarda gli Stati Uniti: Bruebaker (1980); Le ali della libertà (1994); L’isola dell’ingiustizia-Alcatraz (1995); Sleepers (1996). Limitandoci alle cose di casa nostra, senza dimenticare Detenuto in attesa di giudizio con la denuncia, regolarmente rimossa, di Alberto Sordi dei mali grotteschi del sistema giudiziario, è ovvio ricordare Diaz, sul G8 di Genova, e Sulla mia pelle, ricostruzione della tragica uccisione di Stefano Cucchi.
Ma esiste anche un docu-film biografico-sociale, Ossigeno (2012), sulla vita di Agrippino Costa, uno che di carcere se ne intendeva avendovi passato vent’anni della sua vita, dodici dei quali nelle carceri speciali: la ricostruzione che ne fa è sconvolgente, riferita, tra le altre cose, alla normalizzazione dei soprusi da parte delle guardie, alla prassi consolidata dei pestaggi programmati, che i detenuti aspettavano con la terrorizzata consapevolezza di non potervisi sottrarre, al ripetersi dei passaggi obbligati nello spazio tra le forche caudine delle guardie che colpivano con calci, pugni, manganelli. Il senso di oppressione è racchiuso in quel titolo, Ossigeno, che è un anelito a poter respirare. Non risulta ne siano seguite denunce di falso. E nemmeno che ne siano seguiti indagini di alcun tipo.
Non è il caso di guardare fuori dal mondo occidentale, nei paesi dove i diritti umani sono carta straccia: nessun commento sarebbe in grado di dare forma alle reazioni di sconquasso del pensiero davanti ai documentari che, on line, è possibile reperire.
La punta dell’iceberg
Restiamo quindi nei limiti del “nostro” mondo: Susan Sontag, quando parlava della sconvolgente testimonianza che le foto di guerra ci offrono, sollecitava a guardarle pensando a tutto quello che non offrono; in altri termini, spesso ciò che emerge, anche molto faticosamente, è solo la punta dell’iceberg di qualcosa di ben più vasto e drammatico. Il suo appello a non costringere il pensiero entro i limiti dell’informazione offerta, penso vada a buon diritto accolto per i casi di torture emersi nelle carceri italiane, che rimandano a una realtà ben più estesa.
Le denunce, ora che la legge esiste, sono diventate frequenti, spesso presentate dai parenti dei detenuti attraverso l’associazione Antigone (il nome è quello della protagonista dell’omonima tragedia di Sofocle, che ostinatamente pone le regole della morale al di sopra di quelle stabilite dalla legge). I fatti riguardano tante diverse carceri: ad Ascoli Piceno, Piacenza, Modena, Rieti, Monza… Gli episodi denunciati, simili l’uno all’altro, parlano di interventi violenti di operatori carcerari che infuriano sui detenuti. Lo fanno difesi dalle loro divise, spesso con i visi nascosti da caschi e visiere abbassate: usano calci, pugni, manganelli; sono in tanti contro uno solo; picchiano furiosamente mentre l’altro, indifeso e quasi denudato, cerca di proteggere qualche parte del proprio corpo, in un’impresa impossibile perché i colpi arrivano da più parti e colpiscono indifferentemente la testa, il viso, le gambe, i genitali, le braccia. Le urla sono il sottofondo che rende più spaventosa l’aggressione; gli insulti sono la norma; l’umiliazione è parte del tutto. Non mancano variazioni sul tema, con pestaggi su chi è chiuso in ascensore e quindi in una situazione fortemente claustrofobica, che dilata il vissuto di impotenza; o su chi è in carrozzella e quindi ancora più debole. Non c’è via di scampo per nessuno.
A interrompere il disastro morale potrebbe risvegliarsi una sopita forma di empatia, che sembra però latitare per quasi tutti. Quasi, come vedremo. Se le descrizioni sono spaventose, i filmati lo sono di più, come avvertono le introduzioni on line: Si informa che il filmato, a causa di scene particolarmente violente, può disturbare la sensibilità di chi guarda. La sensibilità di chi guarda è in effetti molto disturbata, ma non autorizza a non guardare allo scopo di difendere se stessa, pena la rinuncia al dovere di sapere, che è condizione imprescindibile per prendere posizione e provare ad agire...