Il caporalato: schiavitù 2.0

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Caporalato. Sostantivo maschile derivato da “caporale”, scrive l’Enciclopedia Treccani nel suo dizionario on line, “Forma illegale di reclutamento e organizzazione della manodopera, specialmente agricola, attraverso intermediari (caporali) che assumono, per conto dell’imprenditore e percependo una tangente, operai giornalieri, al di fuori dei normali canali di collocamento e senza rispettare le tariffe contrattuali sui minimi salariali”.

Come dire, un sistema di mercato del lavoro in nero in cui l’intermediario-caporale assicura all’azienda, generalmente agricola, manovalanza a bassi costi e con altrettante scarse pretese. I braccianti dormono in baracche fatiscenti, spesso senza acqua, luce e servizi igienici, si lavora ininterrottamente durante tutto il giorno in cambio di pochi euro per ciascuna cassa di prodotto, a cui talvolta si sottraggono anche i soldi per i trasporti e per l’assegnazione dell’impiego. In totale un guadagno di 20-30 euro al giorno, per un full time dalle 6 di mattina fino a quando c’è luce la sera, con l’aggiunta di un extra di botte per chiunque protesti, denunci o tenti di scappare. Spesso un “benefit” in violenze sessuali sono assicurate anche alle donne cedute “alle attenzioni” del caporale, su sua esplicita richiesta, in cambio del conseguimento del lavoro.

Una piramide sociale alla cui base stanno i braccianti, gli schiavi moderni, per di più i giovani migranti africani “clandestini” (e dunque altamente ricattabili), che in questo caso nessun cittadino italiano arriccia il naso nel trovarsi sul territorio nazionale. Poi vengono i “caporali neri”, spesso essi stessi ex braccianti, che interagiscano e arruolano gli sfruttati nei campi, facilitati dalla conoscenza della lingua. I “caporali neri” non sono però autonomi: debbono rispondere ai desideri e ai capricci dei “caporali bianchi” che coordinano le attività. La piramide descritta è però soltanto la base di una filiera alimentare che assegna alle materie prime un prezzo irrisorio conferendo invece un margine di guadagno notevolmente più elevato all’industria di trasformazione. Et voilà, il prodotto piantato, coltivato, raccolto, trasformato, confezionato e distribuito può essere acquistato dagli scaffali di un ordinario supermercato: le esigenze del consumatore, al vertice di questa piramide, possono essere soddisfatte.

Eccoci dunque nella Bella Italia del 2015. L’estate cocente, i campi che brulicano di ortaggi e di frutta ormai maturi, e tanti uomini e donne indaffarati nella raccolta. In Puglia, Basilicata, Calabria, Campania e Sicilia per pomodori e arance, ma anche in Piemonte nelle zone di raccolte delle uve pregiate per il Barolo e per il Moscato o anche nelle valli settentrionali del Trentino per le mele. Pomodori, arance, uva, mele, ma anche fragole e in inverno olive. Un lavoro in nero come molti altri ma che continua a fare notizia perché ogni estate alcuni braccianti muoiono su quei campi per la fatica. Un fenomeno che risulta anzi in espansione in considerazione della crisi del mercato del lavoro italiano e dunque del sottimpiego non solo dei migranti ma anche di alcuni disperati più nostrani. Proprio la crisi economica in atto ha infatti acuito la debolezza delle fasce più povere della popolazione ma non ha di certo cancellato l’esigenza di portare sulla tavola frutta e verdure fresche, così come prodotti confezionati quali pelati e succhi di frutta per l’intero anno: i consumi del mercato interno italiano restano di fatto sostanzialmente stabili, e a questi si somma la forte domanda proveniente dai mercati del Nord Europa.

Paradossale che proprio in mesi in cui l’attenzione mondiale guarda all’Expo di Milano dedicata a “Nutrire il pianeta”, intesa come occasione di interrogarsi sulla produzione di cibo e di energia per il futuro dell’umanità e anche per rilanciare il made in Italy, non si rifletta con altrettanta attenzione su un sistema che vede intere filiere agricole del Paese gestite attraverso lo sfruttamento del lavoro e nella più completa indifferenza dei principali diritti umani. “Sono il motore fondamentale del mercato ortofrutticolo italiano che ogni anno muove più di dieci miliardi di euro” scrive Il Redattore Sociale “eppure sono gli invisibili dell’agricoltura”. Specie se nelle larghe maglie dei passaggi commerciali tra la vendita dei raccolti alle multinazionali di trasformazione dei prodotti, e il trasporto e la distribuzione degli stessi si inseriscono anche le organizzazioni malavitose; comprensibile allora pensare quanto sia ancora più difficile spezzare questa filiera, definita giustamente “sporca” dal recente rapporto realizzato dalle associazioni “daSud”, “Terra! Onlus”, “Terrelibere.org”, presentato alla Camera dei Deputati alla fine del giugno scorso. Anche SlowFood parla di caporalato e realizza una sua inchiesta sulla raccolta delle uve per i vini nella zona delle Langhe e del Monferrato, e la Conferenza Episcopale Italiana chiede di intervenire contro questi schiavisti dei tempi moderni.

Inchieste e appelli che da anni delineano un sistema ormai pervasivo a cui occorre far fronte quanto prima, come ha rilevato lo stesso ministro dell’Agricoltura Maurizio Martina dopo il quarto morto accertato quest’anno (di cui due italiani) sui campi di pomodori in Puglia. Oltre a prefigurare un sistema di repressione pari a quello messo in moto contro la mafia, come la disposizione di confisca delle aziende che ricorrono al caporalato, il governo dovrà fare però i conti anche con una realtà di ben più di difficile soluzione: il sistema dello sfruttamento lavorativo risulta funzionale a fronte dei prezzi imposti dalla grande distribuzione e dai grossisti alle aziende agricole. “Con prezzi come otto centesimi al chilo per i pomodori nessun imprenditore può pagare degnamente un bracciante”, parole di Yvan Sagnet, camerunense coordinatore dell'immigrazione per la Flai-Cgil pugliese che un tempo lavorò anch’egli nei campi. “Colpire unicamente i caporali e le imprese non risolverà il problema in un settore, quello agricolo, che gode comunque di ottima salute. La gestione dei prezzi nella filiera agro-alimentare è totalmente sbagliata, poiché consegna tutto il profitto all'industria della trasformazione e alle catene di supermercati lasciando pochissimi margini ai produttori”. Anche di questo sarebbe opportuno parlare sotto i riflettori di Expo?

Miriam Rossi

Miriam Rossi (Viterbo, 1981). Dottoressa di ricerca in Storia delle Relazioni e delle Organizzazioni Internazionali, è esperta di diritti umani, ONU e politica internazionale. Dopo 10 anni nel mondo della ricerca e altrettanti nel settore della cooperazione internazionale (e aver imparato a fare formazione, progettazione e comunicazione), attualmente opera all'interno dell'Università degli studi di Trento per il più ampio trasferimento della conoscenza e del sapere scientifico.

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