Il capitale nel cervello

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Il testo che state leggendo è stato scritto e concepito dal cervello umano. La precisazione è d’obbligo, visto che da un po’ di tempo le opere frutto di intelligenze artificiali iniziano a divenire moneta corrente, parte del paesaggio culturale e dell’immaginario che ci circonda. Ma, appunto, in queste pagine proviamo a smontare il feticcio della tecnologia digitale come strumento neutro, indipendente e sganciato dalle attività umane e dalle forme di potere, conflitto e cooperazione. Per sfuggire a questa trappola, bisogna prendere atto che i modelli di Intelligenza artificiale in circolazione non potrebbero funzionare senza nutrirsi dei dati, delle informazioni e dei rapporti di forza socialmente prodotti. Dunque, occorre storicizzare l’IA, inserirla nel contesto più ampio della produzione digitale e dell’economia delle piattaforme. Infine, è necessario attrezzarsi per riconoscere come lavoro produttivo ciò che tradizionalmente non viene considerato come tale. 

Come spiega in apertura Matteo Pasquinelli, la storia stessa della tecnologia è storia sociale, dunque ogni innovazione (fin dai primi manufatti umani, come ricostruito nell’infografica sull’«albero genealogico dei nostri smartphone») deriva da una forma sociale specifica. Se ne erano accorti, alla fine del diciottesimo secolo, i luddisti, che di fronte all’introduzione del telaio a macchina si trovarono ad affrontare il nesso tra innovazione e benessere sociale, come racconta Alessandro NuvolariArmanda Cetrulo, Dario Guarascio e Jelena Reljic, del resto, spiegano proprio che nascondere il ruolo del lavoro sfruttato nei processi di automazione serve a riprodurre nel contesto nuovo gerarchie e dominio. Come afferma Giorgio Maran, se il progresso tecnologico degli ultimi decenni non ha ridotto l’orario di lavoro è per una scelta politica, contro cui bisogna assumere che la lotta per liberare il tempo è la condizione necessaria per redistribuire denaro, potere e saperi. Del resto, sostiene Carlotta Caciagli, gli strumenti digitali sono destinati a produrre contraddizioni e nuove disuguaglianze anche nel campo del welfare e delle politiche pubbliche. I dati, conferma in effetti Teresa Numerico, rischiano di proiettare il passato sul futuro e dunque riprodurre discriminazioni di genere, razza e classe

Dunque, a quale forma sociale corrisponde quella che per brevità chiamiamo Intelligenza artificiale? Dialogando con Marco Bertorello, Christian Marazzi disegna alcune tracce essenziali a proposito del fatto che ormai una grandissima parte di lavoro non trova un corrisposto monetario, il che lo conduce a riflettere sulla relazione tra finanziarizzazione dell’economia e occultamento delle forze produttive. Al contrario di quanto si dice, insomma, la finanza e l’economia cosiddetta «reale» sono profondamente intrecciate.

A proposito di lavoro, Alexander Brentler riflette attorno al rapporto tra IA e il lavoro tipicamente umano che è diventato centrale nelle nostre società: il lavoro di cura e la produzione culturale, due attività impossibili da sostituire con le macchine. Così come Gino Roncaglia, discutendo con Tiziana Mancinelli e Antonio Montefusco, ci ricorda che l’Intelligenza artificiale può servire a valorizzare il patrimonio culturale ma che ciò non può avvenire senza la supervisione degli esseri umani...

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