www.unimondo.org/Notizie/Ignoranza-poverta-religione-le-tre-catene-degli-schiavi-mauritani-158500
“Ignoranza, povertà, religione”: le tre catene degli schiavi mauritani
Notizie
Stampa
Una condizione vista come naturale e immodificabile, che si trasmette di generazione in generazione per via matriarcale, in cui donne e uomini sono delle mere proprietà, a disposizione del padrone che su di loro ha potere di vita e di morte. E’ così che in Mauritania uno schiavo non può possedere o ereditare beni e terreni, nemmeno quelli da lui coltivati. Una schiava può essere abusata anche più volte e messa incinta dal suo padrone, che farà dei suoi stessi figli i suoi schiavi. O ancora, se uno schiavo è particolarmente bello, il padrone può decidere di farlo castrare per evitare che il sangue puro si mischi con quello impuro degli schiavi. Pratiche terribili che al nostro orecchio suonano come superate, usanze d’altri tempi, ma che costituiscono il presente per migliaia di mauritani che continuano a vivere in un regime di schiavitù, quella antica, tradizionale, nonostante questa sia stata legalmente abolita nel 1981. Almeno sulla carta.
Proprio per questa ambiguità è difficile stabilire il reale numero degli schiavi nel paese. L’ultimo Global Slavery Index ne stima circa 43 mila. Li chiamano “Haratin”, che significa “schiavi affrancati”, anche se per molti di loro da quello storico 1981 poco o nulla è cambiato. Così, ancora oggi in Mauritania se nasci Haratin (oltre il 40% della popolazione) o nero-mauritano (il 30%) la tua posizione e quella dei tuoi figli sarà sempre all’ultimo posto della scala gerarchica. In cima c’è la comunità degli arabo-berberi i quali, pur rappresentando meno del 20% della popolazione, detengono il 99% delle cariche dirigenziali.
“Quella del 1981 è stata un’abolizione puramente formale – conferma Sylvia Dell'Aversana Orabona, dottoressa in Scienze politiche e Relazioni Internazionali, durante il recente incontro romano intitolato ‘La schiavitù in Mauritania: la situazione dalle città alla campagna’ – Anche perché il percorso di emancipazione dei mauritani dev’essere prima di tutto interiore”. La studiosa specifica infatti come sia la società mauritana stessa a basarsi sulla programmatica esclusione di ampie parti della propria popolazione, in base al sangue, all’etnia, al “nero” della pelle e a secoli di consuetudini tramandate di generazione in generazione. Una situazione talmente interiorizzata – anche dagli stessi schiavi – che nessuna legge o direttiva statale riesce a scalfire.
“Gli schiavi in Mauritania non sono imprigionati da catene, ma dall’ignoranza, dalla povertà, dalla religione” affermano i membri di Ira Mauritania (Iniziativa per la Rinascita del Movimento Abolizionista) che dal 2008 sta lottando per cambiare questo stato di cose. Guidato dal leader Biram Dah Abeid, il movimento è attivo anche a livello internazionale – Italia compresa – con diverse sezioni che lavorano per far conoscere il più possibile questa realtà il più delle volte ignorata.
Una battaglia che si preannuncia lunga e difficile, anche a causa del doppio registro utilizzato dal governo mauritano: se da un lato nel 2007 ha inasprito le pene contro la schiavitù, fino ad equipararla nel 2015 a un crimine contro l’umanità punibile con 20 anni di carcere, dall’altro lato non fa nulla di concreto per scoraggiare tale pratica, ma anzi continua a usare il pugno di ferro contro gli attivisti abolizionisti, con processi e incarcerazioni. Tutto questo mentre l’occidente spesso e volentieri chiude un occhio, accontentandosi delle dichiarazioni formali: non dimentichiamo che la Mauritania è ricchissima di risorse, dalle pietre preziose ai giacimenti di gas e petrolio.
“Il potere mauritano è ostaggio di questo sistema di caste che ancora perdura – continua Sylvia Dell'Aversana Orabona – Chi non fa parte della casta dominante va a costituire quel 44% dei poveri del paese”. Un problema che affonda le radici anche nell’assenza di istruzione e nelle credenze religiose: “La schiavitù viene giustificata dall’osservanza dei testi malikiti, in cui tra le altre cose viene detto che l’obbedienza al padrone è un dovere religioso poiché il padrone è l’unico che può garantire l’accesso alla vita nell’aldilà”, spiega Bruna Serio, dottoressa in Scienze politiche e Relazioni Internazionali, anche lei tra i relatori del convegno.
E’ per questo che il 22 aprile 2012 gli attivisti di Ira Mauritania avevano messo in atto una protesta simbolica bruciando in piazza gli scritti, dopo averne rimosso tutte le parti con riferimento al Corano. Per loro, infatti, nel libro sacro dell’Islam non c’è nulla che giustifichi lo sfruttamento di un uomo da parte di un altro uomo, mentre quella dei testi malikiti non sarebbe altro che un’interpretazione strumentale, un “libro per uomini scritto da uomini” con cui si tiene soggiogata una parte della popolazione (la maggioranza) che in realtà non ha mai conosciuto altro, se non in un passato lontano.
Ira Mauritania però non molla, nonostante gli arresti, il carcere, perfino le torture. Anche nel caso del 2012 così come in diverse altre manifestazioni la repressione è stata durissima. Lo stesso Biram Dah Abeid – spesso soprannominato dai media il "Mandela" della Mauritania – è stato arrestato diverse volte per la sua attività politica, e si trovava in carcere fino a poche settimane fa, dopo che era stato condannato a due anni di prigione nell’agosto 2015, per appartenenza a un’organizzazione illegale (l’IRA), manifestazione non autorizzata e resistenza a pubblico ufficiale. La notizia del suo rilascio, insieme al collega Brahim Bilal Ramdhane, è arrivata infine il 17 maggio scorso. Lui stesso discendente da uno schiavo ma nato libero, nel 2014 Biram si era addirittura presentato alle elezioni mauritane sfidando il presidente Mohamed Ould Abdel Aziz. L’incredibile risultato raggiunto (secondo con l’8,67%) è stato un segno che forse le cose, nonostante tutto, stanno cominciando a cambiare.
“Il movimento ha sempre lottato pacificamente, tanto che negli ultimi anni abbiamo ricevuto anche dei riconoscimenti internazionali. Quello che Ira chiede è semplicemente la fine dell’esclusione in tutti i settori, compresa l’economia e la politica” commenta Yacoub Diarra, presidente della sezione italiana del movimento, che lancia un appello alle associazioni affinché venga istituita una giornata contro la schiavitù, tutta la schiavitù: da quella moderna legata alle migrazioni, alla tratta e allo sfruttamento del lavoro, a quella tradizionale. Perché, come ribadisce durante l’incontro romano: “Non è possibile che oggi, nel 2016, ci siano ancora persone che nascono schiave”.
Anna Toro

Laureata in filosofia e giornalista professionista dal 2008, divide attualmente le sue attività giornalistiche tra Unimondo (con cui collabora dal 2012) e la redazione di Osservatorio Iraq, dove si occupa di Afghanistan, Golfo, musica e Med Generation. In passato ha lavorato per diverse testate locali nella sua Sardegna, occupandosi di cronaca, con una pausa di un anno a Londra dove ha conseguito un diploma postlaurea, sempre in giornalismo. Nel 2010 si trasferisce definitivamente a Roma, città che adora, pur col suo caos e le sue contraddizioni. Proprio dalla Capitale trae la maggior parte degli spunti per i suoi articoli su Unimondo, principalmente su tematiche sociali, ambientali e di genere.