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Identità sessuale under 18, nuove vulnerabilità
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Foto: Unsplash.com
Bambini e bambine vulnerabili. Se sentiamo queste parole cosa ci viene in mente? Guerre? Violenze? Abusi? Rapimenti? Disabilità? Bullismo? Droghe? Purtroppo di cose ce ne vengono in mente tante, troppe. Ma tendenzialmente a una non pensiamo, quasi mai. E cioè al fatto che migliaia di bambini sono alle prese con interrogativi fondamentali per il proprio sviluppo psicofisico, che riguardano la propria identità di genere. E questo li rende estremamente fragili, vittime della tossicità del dibattito transgender e di un sistema sanitario inadeguato, che ne condiziona pesantemente lo sviluppo e la formazione.
Senza citare le indecenti boutade di certe figure pubbliche che inspiegabilmente ancora ricoprono ruoli di prestigio (uno su tutti Vittorio Sgarbi e il suo inqualificabile video con i ragazzini sul lago di Garda, con quell’urgenza ridicola di stabilire un cameratismo primitivo sul non essere “finocchi”) e che inevitabilmente mettono in luce anche per l’Italia una situazione tragica dal punto di vista di un sano e costruttivo approccio alle sessualità, torniamo in Inghilterra, dove è venuta a galla la questione in maniera molto netta. La pediatra Hilary Cass, consulente del Sistema Sanitario Nazionale (NHS), ha rilevato come determinati servizi, come il Gender Identity Development Service di Londra (che tra il 2009 e il 2020 ha avuto in cura circa 9000 bambini, bambine e adolescenti, con un’età media di 14 anni), utilizzino ormoni per assecondare le apparenze maschili o femminili, con scarsissimi risultati che dimostrino un collegato miglioramento del benessere dei giovani nell’età della formazione, ma anzi determinando preoccupanti possibili conseguenze negative sulla loro salute, sia fisica che mentale. Con questo non si intende affatto minare la validità di percorsi mirati all’espressione della propria identità sessuale o alla possibilità di modificarla, ma acuire l’attenzione per migliorare l’accompagnamento in una fase delicata della vita che riguarda sempre più persone che negli anni dello sviluppo attraversano interrogativi legati al genere.
Una questione spinosa, che per noi italiani forse risulta anche poco comprensibile considerato il livello pietoso del dibattito su questi temi nel nostro Bel-paese (ovviamente bello se sei “straight”, diritto, normale). Le parole pesano come macigni e definiscono un mondo dove le diversità hanno mille etichette che devono combattere contro un’unica presunta definizione di normalità mono-tono, acuendo un problema già di per sé grave con un dibattito ignorante e polarizzato, anche e soprattutto a livello pubblico.
Un dibattito che poi si riflette nel mondo della ricerca, spesso chiamato a “schierarsi per giustificare una posizione, indipendentemente dalla qualità degli studi”, come si sottolinea nella Cass Review commissionata nel 2020 proprio dal Sistema Sanitario Nazionale inglese. “Ci sono pochi altri ambiti del sistema sanitario dove i professionisti sono così spaventati dal discutere apertamente le loro prospettive, dove sono denigrati sui social e dove gli epiteti fanno eco ai peggiori comportamenti da bulli.” Molte persone temono di esporsi e lavorare in questo settore, e questo definisce in maniera abbastanza chiara la “tossicità” del dibattito sui temi di genere.
Un lavoro, quello della pediatra, che ha portato alla recente chiusura dei GIDS (Gender Identity Development Services), le uniche cliniche gender-specialized in Inghilterra e in Galles dove venivano utilizzati anche inibitori della pubertà (il cui uso era iniziato in via sperimentale salvo poi estendersi a gruppi più ampi di persone senza risultati effettivamente provati negli effetti che potrebbero avere in età adulta), a favore invece di un potenziamento di modelli di cura olistici, in cui i minorenni che sperimentino qualunque tipo di dubbio rispetto alla propria identità sessuale possano beneficiare di un supporto psicologico che li aiuti a riconoscersi. Perché “per la maggior parte di loro non è indicato un percorso medicalizzato come via migliore per gestire il disagio rispetto alla propria identità di genere e anche lì dove questo percorso sia indicato, è importante che venga supportato da un approccio più ampio che consideri il benessere a tutto tondo, anche psicologico”. Molti di loro presentano infatti anche sintomi di ansia e depressione conseguenti a un mancato riconoscimento della propria identità. Non si tratta solo di assecondare il cambiamento, ma di accompagnarlo con le giuste tempistiche, perché sia consapevole e, come direbbero oltremanica, autenticamente empowering, ovvero garantisca informazioni corrette sulle prospettive possibili, non solo soluzioni rapide e binariamente medicali (come per esempio la somministrazione di testosterone o estrogeni), con riscontri dibattuti da un punto di vista scientifico e spesso inficiati da battaglie culturali e ideologiche alimentate anche da pericolosi influencer che rendono queste giovani personalità in costruzione ancora più fragili, allontanandoli dalle famiglie il cui supporto si è rivelato e continua a rivelarsi invece fondamentale, come conferma Sallie Baxendale, professoressa di Neuropsicologia clinica presso lo University College London.
Si tratta di un campo minato di vulnerabilità, dove ci si dovrebbe muovere con estrema cautela e delicatezza. E dove invece troppi intervengono a gamba tesa, facendo lo sgambetto a un futuro più inclusivo.
Anna Molinari

Giornalista freelance e formatrice, laureata in Scienze filosofiche, collabora con diverse realtà sui temi della comunicazione ambientale. Gestisce il progetto indipendente www.ecoselvatica.it per la divulgazione filosofica in natura attraverso laboratori e approfondimenti. È istruttrice CSEN di Forest Bathing. Ha pubblicato i libri Ventodentro (2020) e Come perla in conchiglia (2024). Per la testata si occupa principalmente di tematiche legate a fauna selvatica, aree protette e tutela del territorio e delle comunità locali.