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Go vegan… che fatica!
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Foto: Unsplash.com
Ho sempre guardato a chi intraprende una scelta vegana con rispetto, perché penso si tratti di un percorso nient’affatto semplice: occorre stare particolarmente attenti a integrare bene l’alimentazione per non scontare carenze vitaminiche e proteiche, scremare parecchi acquisti che contengono derivati animali (dalle scarpe in pelle alle sciarpe in seta, solo per citarne un paio) e bisogna anche organizzarsi bene per la propria vita sociale in un mondo che non è ancora e per nulla vegan-friendly. A questo proposito, bisogna anche non essere proprio poverissimi, perché le alternative vegane sono parecchio costose se si decide di acquistare qualcosa di già pronto e non autoprodurre la maggior parte dei beni di cui si ha bisogno. Senza contare poi quella sottesa-ma-non-troppo commiserazione a cui si va incontro, che spesso paragona questa presa di posizione a una pazzia un po’ freak senza nessun fondamento storico o culturale che la giustifichi. Barriere di varia natura che non rendono facile la scelta vegana, anche se prende di petto una questione cruciale che riguarda tutti noi, e che però solo una minima parte affronta: il nostro rapporto con le altre specie e la nostra supposizione (davvero così fondata?!) di poterne disporre a nostro uso e consumo. E il cibo, si sa, soprattutto per noi italiani, è argomento rilevante per definire stili di vita, caratteri, salute, pensieri.
Mangia questo, sostituisci quello, non cucinare quell’altro. Oggi siamo inondati di consigli culinari per qualunque tipo di dieta. E fare scelte consapevoli anche nel piatto è uno degli strumenti più potenti che abbiamo per modificare la domanda – e quindi l’offerta – che caratterizza le nostre tavole e che incide pesantemente sugli impatti ambientali del nostro stile alimentare. Ogni anno, a gennaio, la campagna Veganuary – Try vegan this month – incoraggia le persone nel mondo a sperimentare una dieta basata in misura maggiore sulle piante e a fare in questo senso scelte di lungo periodo che riducano l’impronta ecologica che lasciamo sul Pianeta. E i dati confermano che abitudini che vadano in questa direzione contribuiscono a fare la differenza a livello globale.
Quello che però spesso non si considera è l’impatto che la sostituzione di prodotti di origine animale con alternative vegane comporta, come per esempio nel caso del latte e dei sostituti di origine vegetale. Quale consumo di suolo? E di acqua? E quante emissioni di gas serra? Molti cibi a base di piante sono estremamente processati e capita non di rado che le etichette non siano parlanti e non si capisca chi – o quale multinazionale – realmente li produca: alcuni marchi vegani sono per esempio prodotti dalle stesse realtà che forniscono carni e latticini. E questo, nonostante i codici di tracciabilità e la normativa apparentemente molto dettagliata su packaging e informazioni da dare al consumatore… resta di fatto un grosso problema del nostro sistema alimentare globale: la mancanza di trasparenza.
Alla campagna dell’associazione Veganuary hanno aderito nel 2023 oltre 700.000 persone, ma sono solo le persone che hanno ufficialmente firmato, quindi è molto probabile che la cifra sia nella realtà molto più consistente. Qual è il segreto del successo della campagna, lì dove molti faticano invece a raggiungere questi risultati?
Due sono i vantaggi di questa proposta: il tempo e il fattore sociale. Da un lato la “prova vegana” arriva a gennaio, un periodo dell’anno in cui le persone sono già predisposte a cambiare stile alimentare per adottare abitudini più salutari, dall’altro sentirsi parte di una comunità che sta vivendo la stessa sfida alimenta un cameratismo positivo che molti apprezzano. Il 98% delle persone che hanno sperimentato questo mese vegano consiglierebbe la stessa esperienza agli amici e il 78% si dichiara intenzionato a ridurre il consumo di prodotti di origine animale, mentre il 25% pensa di continuare a essere vegano. In termini di psicologia sociale, Veganuary funziona, tanto che nel Regno Unito, dove l’associazione ha sede, dal 2008 al 2019 il consumo di carne è diminuito del 17% e il numero dei vegani è aumentato del 370% negli ultimi 5 anni.
Le motivazioni che però spingono le persone a questa scelta riguardano per lo più aspetti legati ai diritti degli animali (40%) e meno salute (21%) e ambiente (18%): il consumo di carne resta in larga misura una questione sociale, ma i tempi sembrano essere di cambiamento. Con accortezza però, tenendo sempre presente la responsabilità che abbiamo come consumatori: come già anticipato, molti marchi celebrati per produrre cibo sostenibile a base vegetale sono proprietà di grandi multinazionali della carne e dei latticini, implicati in operazioni che non rispettano per niente l’ambiente. Un esempio su tutti Vivera, compagnia olandese nota per essere pioniera di alternative vegetali, ma di proprietà dal 2021 della JBS, il più grande produttore di carne su scala mondiale (e il maggior acquirente di bestiame nell’Amazzonia deforestata per fare spazio agli allevamenti intensivi). O ancora Alpro, leader nella produzione di bevande vegetali, acquistata nel 2017 dalla Danone, operazione che però non ha implicato un graduale ritiro della Danone dalla produzione di prodotti a base di latte. Insomma, semplifichiamo: grandi aziende spesso supportate da ingenti sussidi statali che inglobano realtà “vegetali” per strategie espansionistiche, per stare su un mercato che cambia, per darsi un tono più green. O per sostenere scelte di produzione diversificata orientate alla salute.
Per supportare davvero quindi un incremento della produzione a base vegetale di cui il nostro Pianeta ha estremo bisogno, 3 sono i passi significativi che andrebbero intrapresi: aumento consistente delle sanzioni e confisca delle terre per le multinazionali che danneggiano l’ambiente; riorientamento dei sussidi alla produzione di alimenti a base vegetale; rafforzamento del welfare pubblico per rendere i prodotti a base vegetale economicamente più accessibili. Azioni impossibili? Forse, ma nel contesto di forte minaccia climatica che stiamo attraversando, sembrano ancora troppo moderate.
Anna Molinari

Giornalista freelance e formatrice, laureata in Scienze filosofiche, collabora con diverse realtà sui temi della comunicazione ambientale. Gestisce il progetto indipendente www.ecoselvatica.it per la divulgazione filosofica in natura attraverso laboratori e approfondimenti. È istruttrice CSEN di Forest Bathing. Ha pubblicato i libri Ventodentro (2020) e Come perla in conchiglia (2024). Per la testata si occupa principalmente di tematiche legate a fauna selvatica, aree protette e tutela del territorio e delle comunità locali.