Emergenza in Corno d’Africa, l’informazione e la finanza

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Quando sentiamo notizie di grandi tragedie umanitarie, come quella che sta avvenendo nel Corno d’Africa, senza tuttavia una copertura mediatica corrispondente alla gravità della situazione, ci comportiamo secondo uno schema ben definito: sconcerto, senso di impotenza, desiderio di solidarietà. Ma facciamo tutto a distanza, mantenendoci saldi nelle nostre abitudini quotidiane. Oggi poi, con una crisi economica sempre più preoccupante, soltanto i titoli di coda dei telegiornali sono occupati da brevi aggiornamenti, anch’essi sempre più preoccupanti, che vengono dalla Somalia, dall’Etiopia, dal Sudan. Come sempre è una questione di comunicazione, del modo in cui trattiamo le notizie: cambiare l’ottica – ora basata unicamente sulla centralità dell’occidente, su un neo colonialismo informativo – significherebbe compiere un importantissimo passo in avanti.

Ma ora cosa fare in concreto per l’emergenza? Domanda ricorrente e ineludibile. Sicuramente le raccolte fondi sono necessarie ma troppo spesso, tra burocrazia corruzione e insicurezza, pochissime di quelle risorse arrivano effettivamente dove serve. Per noi qui è abbastanza comodo lavarci la coscienza con una telefonata che promette un’elemosina di pochi euro oppure con una offerta più sostanziosa per esempio mediante la Caritas, le Ong, le agenzie delle Nazioni Unite.

Dare ossigeno agli aiuti è necessario. Come testimonia l’impegno di Agire proprio le organizzazioni non governative svolgono il ruolo di supplenza delle altre istituzioni internazionali e, spesso da sole, si trovano in prima linea ad affrontare l’emergenza. La nostra collaborazione con loro non può fermarsi al bel gesto di dare uno spicciolo, dimenticando poi tutto. Occorrerebbe forse fare un altro tipo di donazione, un’offerta di tempo e di attenzione più che di denaro. Qualcuno potrebbe dire che è anche molto facile scrivere a distanza, dare informazioni senza vivere pienamente il dramma: le parole possono fuggire via ma possono pure essere pesanti come pietre. Anche quelle che passano per la Rete. Le parole sono pesanti ma ancora di più i numeri.

Secondo il tredicesimo aggiornamento della situazione di crisi (in inglese .pdf), elaborato dall’OCHA (l’ufficio dell’Onu che si occupa di coordinare le problematiche umanitarie) e datato 8 settembre, il quadro sta peggiorando. Il numero di persone bisognose di assistenza è aumentato, nei quattro paesi interessati (Etiopia, Somalia, Gibuti, Kenya), da 12,4 a 13,3 milioni, con 750 mila persone a rischio di morte in quattro mesi nella regione somala di Bay.

Gravissimo è anche il problema dei rifugiati che superano le 800 mila unità: in Kenya mezzo milione di persone è fuggito dalla guerra e dalla carestia, un paese che già deve affrontare le necessità di quasi quattro milioni di affamati. Inoltre il conflitto nello Stato del Nilo azzurro in Sudan ha fatto affluire, tra il primo e il 6 settembre, circa 20 mila rifugiati in Etiopia che accoglie sul suo territorio 180 mila sfollati. Come fondi è stato raccolto finora soltanto il 62% dei 2,4 miliardi di dollari richiesti dall’emergenza.

Fin qui le cifre. Come sempre la penuria di cibo si innesta in situazioni politiche caratterizzate dalla guerra e dall’instabilità che, in questo caso, si estende ben oltre il buco nero dello Stato fallito di Somalia contagiando i paesi vicini e intrecciandosi con la tensione che investe il nord e il sud del Sudan. Non c’è soltanto il clima conflittuale seguito alla proclamazione dell’indipendenza del sud Sudan e sfociata anche in sporadici scontri militari, ma pure nel gigante retto dal dittatore Bashir la situazione peggiora soprattutto nella regione del Nilo Azzurro dove è più forte l’opposizione al regime. Dalla regione del sud Kordofan, ricca di risorse petrolifere e contesa tra il nord e il sud giungono notizie di bombardamenti indiscriminati sui civili e del ritrovamento di fosse comuni.

Anche il nord dell’Uganda risente di questo quadro in deterioramento. Abbiamo contattato monsignor Giuseppe Filippi, vescovo di Kotido, che così ci descrive la situazione: “In Sudan continuano i conflitti tribali ora che il nemico tradizionale (il governo del Sudan del Nord) non ha più controllo sul Sudan del Sud. La zona dei monti Nuba contesa tra nord e sud subisce sporadici bombardamenti da parte del Nord con conseguente insicurezza, assenza delle ONG che operano per la riabilitazione del Sud Sudan e paura di una vera e propria guerra. L'Uganda per ora non risente di tutto questo anche se l'esportazione di prodotti ugandesi in Sudan ha causato scarsità sul mercato, con conseguente lievitazione dei costi della vita: un paio di esempi: lo zucchero è passato da 1500 scellini al kg a 6000 (ed ora sceso a 4000 grazie all'intervento del governo; la benzina da 3100 è salita a 4240 qui a Kotido”.

Questa affermazione ci porta dritto ad un’altra questione dirimente: l’impatto dell’economia globalizzata su questo tipo di emergenze. Nel presentare la campagna “Sulla fame non si specula” su Unimondo scrivevamo: “Nella finanza di oggi anche un’alluvione o una siccità prolungata in una certa regione del mondo si possono trasformare in un’opportunità per guadagnare sul mercato finanziario, con rendimenti che possono essere elevatissimi”. Facile profezia che invita ancora di più a impegnarsi per un rinnovamento radicale di quelle istituzioni finanziarie che sembrano essere l’unica speranza per salvarci dalla crisi ma che invece ne generano delle altre.

Informazione, guerra, carestia, speculazione: tutto è connesso nel mondo globale. Modificare uno solo di questi ingranaggi significa creare le condizioni per una vera svolta.

Piergiorgio Cattani

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