www.unimondo.org/Notizie/Disabili-e-malati-l-equivalenza-imperfetta-147806
Disabili e malati: l’equivalenza imperfetta
Notizie
Stampa
È impressionante ascoltare da giovani volontari del terzo settore in missione in un villaggio keniota il racconto del ritrovamento accidentale di un bambino di 10 anni in una specie di fienile costruito nel retro della baracca dove abitava la famiglia, la sola a sapere della sua esistenza. Il confinamento in quel tetro locale era dettato da una cultura che aveva indotto i genitori a nascondere agli occhi esterni quella “maledizione divina”, i cui segni erano evidenziati dalla disabilità di cui era affetto il ragazzo. Sebbene diversi studi mettano la disabilità a braccetto con la povertà, laddove l’aumento della prima è associato a tassi più elevati di analfabetismo, uno stato nutrizionale carente, bassi livelli di vaccinazione, basso peso alla nascita, un più elevato tasso di disoccupazione e sottoccupazione, tuttavia non occorre andare a cercare in territori con una tale povertà (e non solo a livello di reddito) per individuare situazioni tanto deprecabili.
È una generale cultura della disabilità quella che sembra mancare un po’ ovunque. A dispetto della ricchezza e della modernità di un Paese e del buono livello di stato sociale, appare flebile la denuncia di quell’appiattimento del disabile malato a un numero nell’assistenza sanitaria con proprie regole aritmetiche, dato che il disabile ha il doppio delle probabilità di trovare competenze inadeguate, il triplo del rischio di un diniego di tali cure e il quadruplo delle possibilità di essere maltrattato. Cifre agghiaccianti che si uniscono al rilevamento che un disabile su due non può permettersi economicamente di accedere a cure adeguate e che anzi proprio uno sforzo in tal senso tende a ridurre la famiglia di appartenenza sulla soglia di povertà. 200 milioni sono le persone che avrebbero bisogno di occhiali da vista ma non li possiedono, solo il 5-15% dei 70 milioni di paraplegici possiede una sedia a rotelle, e la necessità dei 360 milioni di persone per un apparecchio acustico incontra il 10% della domanda globale e appena il 3% dei Paesi in via di sviluppo.
Numeri che l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha sintetizzato in una scheda figurata di immediata comprensione nell’intento di rimuovere le barriere di accesso a servizi sanitari che siano impeccabili e abbordabili a livello economico, di investire su forme di riabilitazione e dispositivi adatti a rendere indipendente il disabile, di formare tutti gli operatori sanitari su questioni legate alle disabilità. Una campagna di sensibilizzazione a livello sanitario che attiene allo specifico settore di intervento dell’Agenzia Specializzata dell’ONU ma che non deve far dimenticare che il disabile non è un perenne malato.
“La disabilità è parte della condizione umana” scrive il Rapporto Mondiale sulla Disabilità, messo a punto nel 2011 dall’Organizzazione Mondiale della Sanità e dalla Banca Mondiale, ricordando come questa può intervenire alla nascita così come in ogni momento dell’esistenza umana: una mina anti-uomo può menomare le gambe di un ragazzo, la meningite può rendere sordi, il morbillo causare una encefalite e il polio immobilizzare gli arti, un incidente stradale o sul lavoro costringere su una sedia a rotelle, e così via. Peraltro le percentuali mondiali registrano un progressivo aumento della disabilità a causa dell’invecchiamento della popolazione e dell’aumento delle malattie croniche.
È forse una cultura “delle disabilità” a mancare, perché è fuorviante inserire la categoria minoritaria dei disabili in un unico calderone. Dell’oltre il miliardo di persone che ha una qualche forma di disabilità, circa il 15% della popolazione mondiale, solo (si fa per dire) 110-190 milioni di individui vivono con difficoltà molto significative che incidono sostanzialmente sulle proprie condizione di vita. Per i restanti disabili conteggiati nel Rapporto Mondiale sulla Disabilità vengono registrati a fianco ai generali problemi legati alla discriminazione e alle barriere architettoniche, ampi rischi di mancata assistenza sanitaria e di riabilitazione, le scarse possibilità formative e professionali, un più alto tasso di povertà, e un livello d’istruzione minore. È soprattutto questa ampia fascia di disabili che corre il costante rischio di essere ridotta a una categoria inattiva, e laddove possibile solamente beneficiaria di assistenza. Sono dunque necessari dei reali interventi per l’inclusione sociale del disabile in ambito educativo, lavorativo, culturale e sociale che valorizzino le competenze e le capacità di ciascun individuo, al pari di qualsiasi altro essere umano. Una linea programmatica che potrebbe apparire tra le più difficili da perseguire, stando a quella tabella cronologica che posiziona la Convenzione sui Diritti delle Persone Disabili del 2006 quale l’ultimo dei grandi trattati sinora adottati dall’Organizzazione delle Nazioni Unite in materia di tutela dei diritti umani. I 50 articoli della Convenzione indicano il percorso che la comunità internazionale ha individuato per garantire i diritti di uguaglianza e di inclusione sociale a tutti i disabili, intesi come cittadini a pieno titolo. Non esiste dunque solo un diritto alla salute, ma anche un diritto all’istruzione e alla formazione, al lavoro, al movimento, alla creazione di una famiglia e alla riproduzione sessuale, e via dicendo.
Un documento di cui si rinnovano gli inviti alla ratifica e all’attuazione delle disposizioni di legge, nella speranza che la percezione del disabile diventi più ampia e complessa, e non passi per quel solo distintivo elemento. Ben vengano allora, in questa direzione, l’affiancamento al Piano di Azione Globale dell’OMS 2014-2021 di analoghi percorsi che vadano a scalfire questo appiattimento totale del disabile sul malato.