Cosa succede davvero in Catalogna

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La Catalogna ha vissuto un 2014 politicamente molto confuso e novembre si preannuncia un mese cruciale. Come Unimondo stiamo seguendo con interesse l’evolversi degli eventi, in quanto riteniamo molto importante per tutta l’Europa quello che accadrà nella penisola iberica. Per capire la situazione attuale è necessario ricapitolare quel che è successo a partire dal 19 settembre, quando il Parlamento regionale della Catalogna ha approvato con l’80% dei voti lo svolgimento di un referendum sullo status della Catalogna all’interno della Spagna previsto per il 9 novembre 2014.

Il giorno dopo la firma della legge da parte del presidente del governo catalano Artur Mas, tuttavia, il governo spagnolo ha portato la legge davanti alla Corte Costituzionale. Il 29 settembre il Tribunale Costituzionale Spagnolo ha sospeso il decreto che istituisce il referendum, impedendo dunque di fatto lo svolgimento del referendum. Dopo alcuni giorni di grande incertezza, il 14 ottobre il governo catalano ha deciso di procedere comunque con un referendum dal valore consultivo e non legalmente vincolante.

Quindi il 9 novembre accadrà qualcosa. Non sarà un referendum. Non sarà una consultazione come quelle che è stata discussa dai partiti catalani negli ultimi mesi. Sarà invece una consultazione alternativa, o una forma di partecipazione dei cittadini basata sull’articolo 3 della legge catalana sui voti consultivi, che è stata approvata dal Parlamento catalano il 19 settembre 2014. Il voto, che si terrà negli edifici di proprietà del governo catalano, sarà rivolto agli elettori registrati che saranno chiamati a rispondere ai due quesiti decisi dai quattro principali partiti catalani nel dicembre 2013: “Vuole che la Catalogna sia uno Stato?” e “In caso affermativo, vuole che questo Stato sia indipendente?”.

Il significato del “referendum” sarà quindi politico, soprattutto se un’ampia maggioranza della popolazione si recherà alle urne. La consultazione serve soprattutto ad Artur Mas per dimostrare che ha fatto tutto il possibile per permettere alla popolazione catalana di votare nonostante la resistenza di Madrid. Agli occhi dei catalani, infatti, il primo ministro Mariano Rajoy ne esce come una figura anti-democratica, disposta a tutto pur di impedire un voto popolare in Catalogna.

Resta poco chiaro, in effetti, è come si comporterà il governo di Madrid nelle prossime settimane. Al momento sembra che Mariano Rajoy sia intenzionato a fare davvero tutto il possibile per impedire il voto. Negli ultimi giorni il Consiglio di Stato ha dato parere positivo al consultare nuovamente il Tribunale Costituzionale per bloccare lo svolgimento di questa consultazione alternativa. La domanda è se il governo è davvero disposto a fare tutto il necessario, fino a mandare la polizia e l’esercito per impedire l’uso delle urne nelle nelle municipalità della Catalogna. La situazione è molto incerta.

Questa situazione delicata, confusa ed estremamente tesa è molto diversa da quella che ha preceduto il recente referendum per l’indipendenza che si è svolto in Scozia. Si tratta, in quest’ultimo caso, di un esempio positivo di come svolgere un referendum sulla secessione di una regione dal resto dello Stato. Il processo è stato sintetizzato piuttosto bene da Massimo Gramellini: “alle elezioni il partito indipendentista chiede i voti su un programma che pone al primo posto un referendum per separarsi dal Regno Unito. Ebbene, cosa fa il partito indipendentista subito dopo la vittoria? Esattamente ciò che aveva detto: chiede a Londra il referendum. E Londra, che potrebbe negarglielo o ritardarlo con una di quelle tattiche dilatorie in cui i politici sono maestri, a sorpresa glielo concede: mettendo a repentaglio le coronarie della Corona e la carriera del premier Cameron. In campagna elettorale ci si divide con passione e a volte con durezza, ma senza insulti né incidenti”. La campagna per il referendum è durata oltre due anni, permettendo così a tutti gli elettori di informarsi a dovere prima del voto. Il dibattito è stato intenso e ha coinvolto tutti i settori della società civile, incluse le università che si sono impegnate a fornire un’informazione imparziale prima del voto. Come noto, al termine di una lunga campagna elettorale, gli elettori hanno scelto infine di rimanere nel Regno Unito.

In Spagna, invece, il governo di Mariano Rajoy non solo si è sempre opposto all’indipendenza della Catalogna, ma ha risolutamente negato la possibilità che i catalani votassero tramite un referendum popolare. La ragione dietro questo diniego categorico risiede nella costituzione spagnola, che definisce il paese come unico e indivisibile. Nel Regno Unito, viceversa, questo ostacolo non è mai esistito perché l’ordine costituzionale britannico non contiene nulla che proibisca esplicitamente o implicitamente una divisione territoriale dell’Unione. E tuttavia, come scrive Gramellini, il primo ministro inglese non aveva nessun obbligo politico a concedere il referendum: avrebbe potuto facilmente tergiversare o glissare. Non è stato così e i risultati sono sotto gli occhi di tutti. In Spagna, al contrario, il primo ministro Rajoy ha continuato a rifiutare categoricamente il diritto della Catalogna di votare, con il risultato di rafforzare enormemente il sentimento secessionista. Se fino al 2005 solo il 13% dei catalani era a favore dell’indipendenza dalla Spagna, oggi oltre il 50% voterebbe secedere da Madrid.

Anche se la costituzione spagnola impedisce un referendum di questo tipo, una domanda popolare tanto forte non può essere ignorata a lungo, come invece il governo spagnolo si ostina a fare sperando che prima o poi i catalani si stufino e smettano di manifestare il loro discontento verso lo stato spagnolo. Al tempo stesso, tuttavia, la prospettata indipendenza della Catalogna rimane enormemente problematica. Al di là di tanti problemi di natura politica ed economica, rimane impossibile immaginare che l’indipendenza di una regione venga conquistata attraverso un processo tanto confuso e conflittuale.

Al momento non v’è nessuna chiarezza su che tipo di stato diventerebbe la Catalogna in caso di indipendenza, su quali risorse economiche potrebbe poggiare, come dividerebbe il debito con la Spagna, come gestirebbe le frontiere e come intenderebbe perseguire la propria partecipazione all’Unione Europea, giusto per citare alcune questioni che non sono mai state discusse veramente. Mentre il lungo processo che ha portato al voto in Scozia aveva chiarito molti dei punti confusi, in Catalogna a meno di un mese da voto non è chiaro neppure il quesito referendario. Una secessione territoriale non può essere gestita attraverso un processo la cui natura è così profondamente conflittuale e confusa. Ogni risultato, a prescindere da chi vincerà questo braccio di ferro tra il governo di Madrid e quello di Barcellona, si prospetta estremamente lacerante.

È ironico che il 2014 abbia offerto due esempi diametralmente opposti di come è possibile gestire un referendum sull’indipendenza territoriale: il primo, quello scozzese, dimostra che un governo regionale e nazionale si possono accordare producendo una discussione vibrante e rispettosa, che conduce a un esito democraticamente accettato da tutti; il secondo, quello catalano, che produce un disaccordo apparentemente insanabile e altamente divisivo, le cui conseguenze appaiono ancora sinistramente incerte. Forse prima del 9 novembre, data in cui il referendum è attualmente previsto, ci saranno altri colpi di scena. Certo al momento per questa storia thriller è difficile immaginare un lieto fine in tempi rapidi.

Lorenzo Piccoli 

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