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Con Duda un’involuzione della Polonia in una “demokratura”?
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Andrzej Duda è il nuovo presidente della Polonia, avendo ottenuto il 51,55% dei voti nel ballottaggio del 24 maggio scorso contro il presidente uscente, Bronislaw Komorowski, che fin dalle prime proiezioni degli exit poll ha ammesso la sconfitta facendo i migliori auguri al suo successore. “Chi ha votato per me ha votato per il cambiamento. Insieme possiamo cambiare la Polonia” si è invece apprestato a dichiarare Duda, in festa nel suo quartier generale. La Polonia si appresta dunque a una svolta: in quale direzione?
Euroscettico, conservatore, ultranazionalista: questo il breve profilo del nuovo presidente polacco. Una gavetta di successo nel partito di destra “Diritto e Giustizia” (Pis) fondato dai gemelli Lech e Jaroslaw Kaczynski, eurodeputato dal 2014 all’interno dell’Alleanza dei Conservatori e Riformisti europei, sostenuto dagli ambienti più conservatori della Chiesa cattolica polacca, Duda afferma innanzitutto di voler tutelare gli interessi della Polonia. Un punto che si esplicita nell’avversità all’Europa unita e all’entrata della Polonia nell’area monetaria dell’euro. Per Duda “il paese è in rovina”, uno slogan elettorale che è stato appunto seguito dalla necessità individuata di una “buona svolta” per ricostruirlo. Una visione che appare diametralmente opposta a quella dell’ex presidente Komorowski che, assunta la carica alla morte di Lech Kaczynski nel tragico incidente aereo di Smolensk dell’aprile 2010, ha continuato ad assistere a una rapida quanto straordinaria crescita economica della Polonia negli stessi anni in cui il resto dell’Europa ha invece registrato una crisi senza precedenti. Uno sviluppo che, secondo Komorowski, sarebbe dovuto all’attuazione di quelle riforme avviate proprio nel solco dell’adesione all’Alleanza Atlantica nel 1999 e all’Unione Europea nel 2004. Una conferma, dunque, delle scelte adottate dalla Polonia all’indomani del crollo del blocco sovietico della guerra fredda, che miravano a un’integrazione nell’economia di mercato e nel sistema di sicurezza multilaterale, diminuendo così i costi nazionali per la difesa, riavviando lo sviluppo del Paese e prendendo inoltre parte alle strutture decisionali che avrebbero riguardato il futuro del continente europeo, e di conseguenza della Polonia. L’opzione di un “ritorno alla comune casa europea”, come si disse allora, fu condotta a fianco dei governi di Praga e Budapest, anch’essi alla ricerca di una strada per soddisfare le ansiose richieste di benessere e stabilità dei propri cittadini. Proprio le risposte che vennero date allora, e avviarono il cammino verso l’ammissione all’Alleanza Atlantica e l’integrazione europea, sono oggi rimesse in gioco in Polonia (come è già stato fatto in Ungheria).
La libertà e la crescita messe sul piatto della bilancia in quest’ultimo ventennio, che su carta hanno inaugurato in Polonia una prosperità senza precedenti, sono però da pesare con i costi in termini di aumento delle disuguaglianze e della disoccupazione denunciati in particolar modo dai cittadini più giovani, inoccupati, o precari ed marginalizzati dal boom economico. È in particolare cavalcando questo malcontento e proponendo un programma populista, fondato sulla riduzione dell’età pensionabile (innalzata negli anni precedenti), sul taglio delle tasse per le piccole e medie imprese, e sulla nazionalizzazione di banche e media, che Andrzej Duda ha individuato un fruttuoso bacino elettorale tra i giovani, ottenendo il 60,8% dei loro consensi. Un elettorato che si è aggiunto a chi è rimasto deluso dalla leadership liberale, come nel caso degli elettori delle frange più conservatrici influenzate dalla Chiesa reazionaria, convinti al contrario dalla dichiarata opposizione di Duda alla fecondazione in vitro e dalla paventata possibilità che sia addirittura punita con la reclusione, o di quelli della sinistra moderata da anni all’asciutto dal vedere messi in campo progetti in ambito sociale. Molti polacchi hanno inoltre affidato il loro voto all’“euroscettico Duda”, carattere individuato come un valido lasciapassare per la vittoria, individuando nella burocrazia e nelle decisioni di Bruxelles le responsabilità di qualsivoglia malcontento polacco.
All’indomani delle elezioni, dall’opposizione politica si eleva già la denuncia, preventiva ma non priva di fondamenta, del rischio con Duda di involuzione in una “demokratura”, neologismo atto a designare uno Stato in cui la democrazia, formale, di fatto è stata svuotata di contenuti, come dell’autonomia dei media, del sistema di giustizia, della banca centrale: una dittatura quindi travestita da democrazia. Il caso a cui si guarda è quello dell’Ungheria di Viktor Orbàn a cui lo stesso partito di Duda si ispira, tanto da aver coniato lo slogan “portiamo Budapest a Varsavia”. Al momento si tratta solo di una macabra promessa elettorale, quella di agire sulla falsariga di Orban imitando l’autoritarismo registrato dal premier magiaro. Da considerare inoltre che il sistema costituzionale polacco non affida al presidente poteri esecutivi ma solo il diritto di veto sulle nuove leggi e il controllo delle forze armate. Se Andrzej Duda potrebbe mostrarsi un presidente dal veto facile, ad oggi non gli è tuttavia consentito mettere il veto a provvedimenti in materia economica e fiscale; inoltre, fino al prossimo ottobre, Duda dovrà convivere con l’esecutivo di Ewa Kopacz, alleata di Komorowski. Dopo di che ci sarà la vera sfida elettorale della Polonia con il rinnovo della Sejm, il Parlamento nazionale. Lo scontento degli elettori verso il Partito liberale di centro Piattaforma civica (Po) al governo dal 2007, registrato nelle elezioni di maggio, costituisce un sicuro campanello di allarme per l’esecutivo in carica e una testimonianza palese che non necessariamente l’essere gli artefici di una crescita economica ripaghi. Di certo l’eventuale detenzione della presidenza e del governo da parte del partito Pis potrebbe essere un evidente segno della enorme voglia di svolta espressa dai cittadini polacchi. In quale direzione si muoverà però a quel punto la Polonia rispetto al ruolo chiave ricoperto nella NATO e nell’UE, nonché ai principi dello stato di diritto?
Miriam Rossi

Miriam Rossi (Viterbo, 1981). Dottoressa di ricerca in Storia delle Relazioni e delle Organizzazioni Internazionali, è esperta di diritti umani, ONU e politica internazionale. Dopo 10 anni nel mondo della ricerca e altrettanti nel settore della cooperazione internazionale (e aver imparato a fare formazione, progettazione e comunicazione), attualmente opera all'interno dell'Università degli studi di Trento per il più ampio trasferimento della conoscenza e del sapere scientifico.