Cina e religioni: se il Dalai Lama dà lezioni di laicità

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I giornali cinesi ufficiali, almeno nella versione inglese, non ne parlano. Un cenno soltanto dal South China Morning Post, lo storico quotidiano di Hong Kong. Tuttavia c’è una provincia del centro sud della Cina, il Sichuan (dove sono presenti più di 1 milione di tibetani), che in questi giorni è teatro della più imponente forma di protesta degli esuli tibetani dopo quelle dell’estate 2008.

L’ultima possibilità di resistenza per i monaci buddhisti tibetani che vedono ogni giorno cancellate le tracce della loro cultura e negati gli elementari diritti di libertà religiosa, è quella di darsi fuoco, immolandosi per la causa del loro popolo. Gesto estremo, piuttosto estraneo anche dalle loro tradizioni di fede e quindi segno di una diffusa disperazione, ma che comunque getta nello scompiglio la dirigenza cinese e chiama pure in causa la nostra disattenzione. I tibetani e la dirigenza cinese si rimpallano le accuse di “istigazioni al suicidio”, ma è facile comprendere chi sia il lupo e chi l’agnello in questa ennesima, tragica, contrapposizione.

Con le religioni organizzate la Cina comunista è sempre stata durissima, diventando spesso l’emblema della negazione dei diritti di libertà religiosa. Dopo la cacciata dei missionari cristiani nel 1951 ondate di vera e propria persecuzione si alternarono con tentativi di incasellamento burocratico delle strutture religiose nelle istituzioni del nuovo regime: nacquero così le associazioni e le “chiese” patriottiche per i cattolici, per i protestanti, persino per i mussulmani. Organismi quasi sempre in contrasto con le Chiese ufficiali.

È interessante notare come lo stesso trattamento venne riservato al taoismo, la vera e unica religione autoctona cinese. Durante la Rivoluzione culturale (1966-1976) migliaia di sacerdoti e monaci vennero uccisi o mandati ai campi di lavoro, templi e monasteri distrutti, mentre il culto venne proibito. In seguito agli ultimi devastanti eccessi del maoismo, i dirigenti comunisti capirono l’insostenibilità di tale approccio cominciando una politica di apertura, meglio di controllo più camuffato anche su queste antichissime tradizioni spirituali. Così la ricerca dell’armonia sociale (concepita in modo rigidamente gerarchico), pilastro della politica interna cinese dopo il 1978 e ora con il presidente uscente Hu Jintao divenuta teoria fondamentale, ha imposto un comportamento neutro da parte del governo.

Ora moltissimi monaci taoisti sono ritornati nel Sichuan, ripopolando le montagne “sacre” del Qingchengshan, catena montuosa del Sichuan vicino alla città di Chengdu (e evidenziati dall’UNESCO come “Patrimonio dell’umanità”), tradizionalmente ricordata come una delle culle del pensiero taoista. Quasi 2000 sacerdoti vivono oggi su queste montagne, in povertà assoluta, a contatto con una natura ancora (fino a quando?) incontaminata, cibandosi delle offerte e dei prodotti donati dall’ambiente circostante. Sono tollerati dalle autorità forse perché attirano turisti (numerosissimi sono i turisti attirati dalle terre del Panda gigante), forse perché non si interessano quasi niente di politica, non vogliono modificare o peggio sovvertire l’ordine pubblico.

Attivi nella ricostruzione della trama della loro presenza concreta di aiuto al prossimo e intenti alla conservazione della loro religiosità, i taoisti hanno imparato a convivere, anche se molto freddamente, con lo Stato comunista. Ora si sta cercando di istaurare una reciproca collaborazione fatta di un accordo mai siglato, ma presente, di non invadere il campo altrui. Sicuramente i sospetti permangono e i taoisti devono stare attentissimi a non “fare politica”, dedicandosi alla meditazione e alla pratica delle cosiddette “arti marziali” (termine occidentale usato qui per intenderci) – modalità di vita peraltro molto tradizionali: è noto infatti che i maestri taoisti fossero piuttosto avulsi dalla realtà politica (per una prima infarinatura sul tema, si legga un interessante blog sul sito de La Stampa).

Diversamente i monaci buddhisti tibetani, con la caratteristica figura religioso politica del Dalai Lama, si sono sempre dovuti confrontare con i cambiamenti della storia e, soprattutto ora, con la difesa della propria identità.

Gli avvenimenti di questi ultimi mesi denunciano un salto di qualità nel conflitto tra i tibetani e la Repubblica Popolare: ora Pechino vuole nominare il successore del Dalai Lama minando dalle fondamenta una millenaria tradizione. Dal canto suo il Nobel per la pace risponde con la nomina, nella scorsa estate di Lobsang Sangay, un primo ministro “laico” e con una progressiva “secolarizzazione” del potere. Una mossa innovativa ma giudicata dalla Cina soltanto propagandistica. Evidentemente il dogma repressivo su qualsiasi iniziativa della dirigenza tibetana continua a segnare la “religione” ufficiale della Cina nazional/comunista, chiusa ermeticamente ad ogni tipo di spiraglio. Ma proprio la sensibilità spirituale della gente del Celeste impero potrebbe portare a svolte improvvise.

Piergiorgio Cattani

 

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