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Cibo vero
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Sono a Johannesburg, e ho appena finito di ascoltare la storia di Konrad. Uomo coraggioso. Tanto da lottare, qui in Sudafrica, per la regolamentazione delle etichette alimentari (l’obbligo di scrivere gli ingredienti) e introdurre una certificazione biologica dal basso. “I contadini del Limpopo, come molti altri, non possono permettersi di pagare un ente certificatore, è impensabile. Vivono in villaggi poverissimi, non hanno nulla, se non la loro capacità di far crescere frutta e verdura ottima. Il problema è che la gente, ora, inizia a volere un timbro, una garanzia, quando acquista biologico”. E allora? E allora si mettono assieme contadini già certificati, un paio di esperti, e s’insegna, gratis, come arrivare al “bollino”. Si rendono i contadini autonomi, pur controllando che vengano rispettati gli stretti parametri del protocollo.
Compero sempre la loro frutta e verdura. So dove vanno i miei soldi. So chi coltiva il cibo che ho nel piatto, e che può mandare a scuola i suoi figli. E so, soprattutto, che non deve lasciare la sua terra in cerca di una fabbrica o di una miniera nella grande città. So che, anche grazie alla mia scelta, può continuare a vivere nel luogo in cui è nato e che ama, senza snaturarsi né snaturarlo.
Konrad mi ricorda un altro uomo coraggioso. Vivevo sul mar Baltico, allora. Avevo appena iniziato a prestare attenzione al cibo che comperavo. Ma non per salvare la natura, o per aiutare i piccoli contadini. Era puro egoismo. Stavo male e cercavo il benessere. Il mio. Ho iniziato ad osservare, a parlare coi vecchi. A leggere e a studiare. A capire che c’era un motivo, se la gente mangiava pesce affumicato e radici di tutti i tipi, e cavolo e burro crudo e strutto e torte al rabarbaro.
Ho iniziato a mettere assieme la cultura alimentare con quella geografica. Le nuove conoscenze sul cibo, la medicina tradizionale europea, quella cinese, e le mie vecchie conoscenze universitarie. Perché avevo ancora, in un cassetto, da qualche parte, una laurea in geografia della percezione territoriale. Ma da noi non era tempo. E, a dimostrarlo, un funzionario di Mamma Provincia mi disse che no, non gli interessava. Tutti i miei colleghi letterati ricevevano premi in denaro, dall’ufficio beni culturali. Ma, con fare da maestrina, il solerte sostenne convinto che no. Il paesaggio no, non sarebbe potuto rientrare nelle sue competenze. “Un castello, una chiesa – mi disse – al limite una fontana. Ma il paesaggio, signorina…la me capiss ben…”.
Mi si strinse il cuore, allora, e ricordo di aver pregato che la mia terra, i miei paesaggi, quelli a cui ero così visceralmente legata, non fossero un giorno deturpati grazie alla miopia che mi aveva appena liquidata. Forse è anche per questo motivo, per questa sensazione che in fondo “No, non ci interessano ‘ste cose – sarebbe meglio una laurea in marketing”, che ho deciso di andarmene, appena me l’ha chiesto il cuore. E poi di fare qualcosa dal basso, in prima persona, per aiutare in qualche modo i posti in cui mi trovavo a vivere a rimanere quello per cui erano nati.
E lassù, sul Baltico, ho ascoltato e ho chiesto, e ho ascoltato ancora. Persino il mio corpo, a un certo punto chiedeva cose diverse. Cose che crescevano lì, e crescevano proprio nel momento in cui me le chiedeva. Quello che faceva bene a me si sovrapponeva come per magia con quello che faceva bene al territorio, alla natura, all’economia del luogo in cui vivevo.
Ho iniziato a comperare direttamente dai contadini, saltando passaggi inutili e risparmiando pure. Volevo cibo vero. Un giorno ho ricevuto in regalo da un amico italiano i primi libri di Pollan, e ho capito che c’era chi lo stesso percorso l’aveva descritto alla perfezione. Tra i tanti incontri, un altro uomo coraggioso. La prima volta che siamo finiti nella sua fattoria ha preso nostra figlia per mano e l’ha portata a vedere i maiali che avrebbe mangiato un giorno sotto forma di salame. Liberi e pascolanti. Poi ci ha raccontato le motivazioni che lo hanno spinto a rischiare tutto e a passare al biologico. A fare rete con altri visionari come lui.
Regione povera, il Mecklemburg Vorpommern: latifondi da sempre e DDR quanto basta per dare la mazzata finale alla comunque pressoché inesistente capacità imprenditoriale (un po’ come noi trentini, a pensarci. Bellissima. Spiagge bianche per chilometri, nessun grande centro urbano, niente industria. Punti di forza: natura e agricoltura. E turismo conseguente, se ci si vede lungo. “Mio padre si è suicidato” racconta “Era all’ultimo stadio. Un tumore atroce, provocato dal tremendo cocktail di pesticidi e anticrittogamici (ab)usati in una vita da contadino. Tutte sostanze legali, tutto in regola. Non voglio finire come lui. L’ho promesso, di salvare la mia vita e la nostra terra”. Ora, dopo pochi anni, è una gioia per me seguirli da lontano e vedere il loro successo.
Ho iniziato a chiedermi come e da chi venisse prodotto il mio cibo. A cavarmi gli occhi per leggere le etichette e a lasciar perdere quando gli ingredienti erano più delle dita di una mano, e quando mia figlia di 6 anni non avrebbe saputo disegnarli. Ad imparare il significato di tutti quegli “E” che c’erano ovunque, così come la storia dello sciroppo di glucosio-fruttosio. Ho capito che il grano ha un enzima (di serie!) che ci serve per digerire meglio il suo glutine. E che, con la lavorazione industriale, si raggiungono temperature che lo distruggono (l’enzima, non il glutine), provocando tutta una serie di difficoltà digestive. E che tutto questo si può evitare, basta scegliere le farine giuste, e mangiarne meno (giocando un brutto scherzo anche al business delle intolleranze alimentari).
Ho ricordato come si mangiava nella mia famiglia, a Trento, quando ero piccola. Riso, polenta, orzetto. Gnocchi di patate, strangolapreti con gli avanzi di pane e gli spinaci dell’orto. Di confezionato praticamente nulla. Al massimo c’erano 3 o 4 ingredienti, nell’etichetta. Mio padre tagliava l’erba e la dava al vicino che, in cambio, ogni tanto arrivava con un coniglio. O frutta e verdura in cambio d’uova fresche di giornata. In autunno si andava a raccogliere funghi e castagne, mentre si passeggiava nel bosco (l’ultima volta che sono tornata a Trento, abbiamo trascorso la domenica in Tesino, a raccogliere mirtilli veri, di quelli che colorano la lingua di blu. Al ritorno abbiamo incontrato la vicina, che si lamentava della crisi. Aveva appena comprato tre vaschette di mirtilli coltivati, quelli grossi e bianchi dentro, che non san di niente. 10 euro. Dieci euro!).
Come è possibile che nel giro di una sola generazione si sia dimenticata una cultura e una tradizione alimentare tramandate da centinaia di anni? Voglio dirottare i pochi soldi che mi sono rimasti in un altro modo. Voglio guardare negli occhi chi mi dà da mangiare. Voglio premiarlo, se rispetta se stesso e la nostra terra. Ogni volta che torno cerco esperienze simili. Progetti nuovi. Giovani coraggiosi. Cerco sguardi di gente che si chieda chi ha raccolto i pomodori della passata con cui condisce la sua pasta, e quanti anni è stato nella stiva di una nave il grano di cui è fatta, e arricchendo chi. Una delle ultime volte ho conosciuto Nadia e la sua famiglia, e la carne ormai si prende solo da loro, perché sono proprio quello che cerco. Ditemi che ce ne sono tanti altri così.
Claudia Dallabona da Politica Responsabile