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Chiagni e fotti: il vittimismo dei bulli al potere
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Foto: Unsplash.com
Quelle che oggi definiamo democrazie illiberali o democrature sono il risultato di un percorso culminato nella fase post-democratica. Questo processo consiste nell’erosione dei poteri legislativo e giudiziario e della capacità dei contrappesi di bilanciare l’esecutivo. Il leader eletto dal popolo concentra progressivamente nelle sue mani un potere sempre maggiore. La comunicazione ricopre un ruolo cruciale, in particolare quella non mediata dei social. I politici al potere evitano, per quanto possibile, ogni intermediazione che si frapponga fra loro e il popolo, istituzionale o comunicativa. Il rapporto diretto con l’elettorato conferisce al leader una legittimità quasi assoluta.
In questa cornice, i leader politici diventano dei “bullo-leader” che pretendono di poter spadroneggiare senza limiti. Ma quando fra loro e i loro scopi si frappone qualcosa, sia essa un test elettorale, un potere diverso che li stana, o le opposizioni che alzano la voce, allora si mettono sulla difensiva. Il bullo inizia a piagnucolare, recita la parte della vittima e lo fa sovvertendo la realtà delle cose. Insomma, costruisce una narrazione distorta della realtà.
In questo articolo cercheremo di approfondire alcuni aspetti della strategia comunicativa dei “bullocrati”. Si tratta del vittimismo “dirottato” che, per dirla alla napoletana, potremmo chiamare del chiagni e fotti.
A illustrare bene il concetto è l’articolo Strategically Hijacking Victimhood: A Political Communication Strategy in the Discourse of Viktor Orbán and Donald Trump di Jessie Barton Hronešová e Daniel Kreiss. L’articolo è stato pubblicato online dalla Cambridge University Press il 25 marzo 2024. Gli autori hanno svolto un’analisi qualitativa di una serie di discorsi del presidente ungherese Victor Orbán e di quello americano Donald Trump. In questo modo hanno rintracciato i contenuti che hanno a che fare con il vittimismo, definito “dirottato”.
Il vittimismo dirottato è l’atteggiamento di chi, pur essendo parte del gruppo dominante, recita la parte della vittima. La strategia comunicativa si basa sulla dicotomia vittima – oppressore, ma i ruoli vengono capovolti, invertiti. I rappresentanti del gruppo dominante costruiscono una narrazione che presenta il loro gruppo in pericolo e bisognoso di protezione. A minacciarli sarebbero le azioni e le intenzioni dei gruppi minoritari e di chi li rappresenta.
Normalmente, la gerarchia morale dovrebbe porre al suo apice le vittime (quelle vere), in quanto innocenti. Ma nel caso del vittimismo dirottato questa gerarchia viene sovvertita e le élite possono far uso del potere morale delle vittime. Ecco perché, grazie ad una manovra retorica, il vittimismo dirottato semina confusione morale su ciò che è giusto e ciò che non lo è. Questo atteggiamento permette anche ai gruppi dominanti di autoassolversi dalle loro colpe e responsabilità passate e presenti. Infine, permette loro di sentirsi moralmente giustificati nelle azioni di governo.
Non solo. Le istanze dei gruppi minoritari vengono sminuite e smorzate. Le opposizioni sono dipinte come oppressori malevoli. I gruppi non dominanti vengono scambiati per gruppi dominanti, così che le loro rivendicazioni di diritti e giustizia possano essere facilmente respinte al mittente. Allora, la politica di “securizzazione” del gruppo dominante che deve difendersi è compresa e legittimata.
Veniamo agli esempi concreti.
Il gruppo che Victor Orbán dice di rappresentare è quello degli ungheresi di nascita, bianchi, cristiani, possibilmente conservatori e orientati alla famiglia. A suo dire, il popolo ungherese sarebbe in pericolo a causa di un piano suicida escogitato dalle élite globali.
L’ampia gamma dei nemici del premier ungherese e del suo popolo viene chiamata in causa a seconda della necessità. Si passa dai burocrati di Bruxelles, alle università finanziate da George Soros, allo stesso imprenditore e filantropo, fino alle istituzioni finanziarie occidentali e i media internazionali.
In particolare, la Great Replacement Theory (che in Italia abbiamo imparato a conoscere come “teoria della sostituzione etnica”) accomuna le narrazioni delle destre estreme. Non fa eccezione quella del rieletto presidente degli Stati Uniti.
Sin dalla prima campagna elettorale nel 2016, Trump aveva messo in piedi un intero repertorio comunicativo basato sul razzismo. Per lui i nemici non erano solo i democratici e la sinistra in generale. Ma a questi si aggiungevano i neri, le élite di Washington, i giudici, i media, gli immigrati.
Forse perché non poteva permettersi di rinunciare ai voti degli afroamericani, ripiegò sul fatto che la stessa comunità nera fosse vittima del movimento Black Lives Matter. Del movimento BLM, nato nel 2013, ne sarebbero state vittime anche la classe media americana (bianca) formata dai piccoli imprenditori e la stessa polizia. Oltre al BLM, si aggiungeva una variegata categoria di studiosi, attivisti e giornalisti impegnati nel raggiungere la racial equity (equità razziale).
Insomma, fin dall’inizio Trump ha ingaggiato una battaglia che doveva riportare i bianchi al posto che, secondo lui, spetterebbe loro di diritto. Quello di dominio.
Se per Orbán ad essere in pericolo è il tradizionale modo di vivere degli ungheresi, per Trump è lo stile di vita americano. Per entrambi, ad essere minacciata è la grandezza delle rispettive nazioni. Praticamente una minaccia esistenziale.
Orbán fece leva sulla crisi migratoria del 2015 che portò migliaia di migranti in Europa. Abbinando quella circostanza al declino demografico europeo, trovò terreno fertile in cui seminare la grande paura dell’invasore.
Il premier ungherese è ricorso anche alle sofferenze patite dal popolo ungherese nella sua storia: dall’occupazione ottomana al “trauma” di Trianon, il trattato che disgregò l’impero austro-ungarico, sottraendo all’Ungheria un’ampia porzione di territorio e costringendo quelle comunità ungheresi a vivere oltre confine. La sofferenza passata viene abilmente connessa ai pericoli del presente e alle minacce future, costituite appunto dai migranti, pedine delle élite globali.
Ecco un altro elemento del vittimismo dirottato: l’abilità di intrecciare sofferenze passate, difficoltà presenti e minacce future in un tessuto narrativo impregnato di significato simbolico per il popolo.
La concezione teleologica è quella secondo cui gli eventi avvengono in funzione di un fine o di uno scopo. Il danno subito dal gruppo che questi leader pretendono di rappresentare viene collegato in modo teleologico a quanto avvenuto in passato e a quanto potrebbe avvenire in futuro. In questo modo cercano di convincere gli elettori che l’unica conclusione logica è che siano loro a poter salvare la situazione.
Dall’altra parte dell’Atlantico, nel discorso inaugurale del suo primo mandato, gennaio 2017, Trump promette di ricostruire il Paese e ripristinare le sue promesse: make America great again! Per Trump, l’American carnage (carneficina americana) aveva colpito il popolo americano, riferendosi in sostanza ai giusti e meritevoli bianchi, sfruttati e sottoposti a povertà e dipendenza. Trump caratterizzava l’impoverimento come il risultato di una precisa volontà politica degli oppositori.
Anche il magnate americano ha insistito sulla minaccia dell’apertura dei confini e del pericolo costituito dagli immigrati. Temi che, per altro, sono stati ampiamente ripresi ed estremizzati nell’ultima campagna elettorale. La sua narrazione vittimistica del 2020 era culminata con le stolen elections (elezioni rubate) in cui – tra l’altro – aveva accusato gli immigrati illegali di avere partecipato al voto senza averne diritto. La vicenda si concluse tragicamente con l’assalto al Campidoglio nel gennaio del 2021.
Come abbiamo visto, il vittimismo dirottato implica una visione del mondo binaria di un noi contro loro. Per fare in modo che la narrazione funzioni è sempre necessario colpevolizzare qualcuno, avere un nemico da additare. Questa dinamica innesca un senso di pericolo, di minaccia e di risentimento.
Condividendo lo stesso ruolo di vittima, il leader diventa una controfigura dei membri del gruppo che dice di rappresentare e della loro sofferenza. Per questi leader, interpretare il ruolo di vittima è cruciale per essere coerenti con la propria narrazione. Oltre al senso di condivisione della sofferenza con i sostenitori, permette loro di recitare la parte del salvatore che si sacrifica per un bene più grande e più alto.
Orbán interpreta il ruolo del padre saggio e protettivo, che soffre per le voci – ormai davvero poche in Ungheria – dissonanti e contrarie. Parla di sé come un dissidente, un politico a cui è stata messa la museruola. Accusa i media europei e usa i loro attacchi come prova del suo essere vittima. Chiaramente, omette il fatto di avere in pugno la comunicazione mediatica ufficiale in Ungheria e di avere sostanzialmente silenziato le voci contrarie. Anzi, va oltre e definisce “egemonia dell’opinione” quella dei liberali e degli oppositori politici, accusandoli di mobilitare il dissenso contro di lui.
Anche Trump si è dipinto come la vittima dei suoi nemici politici, del sistema e delle istituzioni giudiziarie. Ha sostenuto di essere preda di una caccia alle streghe che voleva silenziarlo attraverso la cancel culture. Allora Trump si fa portatore di un’istanza di libertà d’espressione contro la censura che, ancora una volta, gli permette di fare la vittima.
Gli autori dello studio concludono: “(…) il vittimismo dirottato costituisce una parte centrale del discorso politico nazionalista, populista e di estrema destra. È uno strumento comunicativo pericoloso che presenta un gruppo danneggiato da un lato e un colpevole dall’altro, sullo sfondo di relazioni di dominio - e nel caso di Orbán e Trump - legittima i protettori illiberali di un ordine sociale ineguale.”
Maddalena D'Aquilio
Laureata in filosofia all'Università di Trento, sono un'avida lettrice e una ricercatrice di storie da ascoltare e da raccontare. Viaggiatrice indomita, sono sempre "sospesa fra voglie alternate di andare e restare" (come cantava Guccini), così appena posso metto insieme la mia piccola valigia e parto… finora ho viaggiato in Europa e in America Latina e ho vissuto a Malta, Albania e Australia, ma non vedo l'ora di scoprire nuove terre e nuove culture. Amo la diversità in tutte le sue forme. Scrivere è la mia passione e quando lo faccio vado a dormire soddisfatta. Così scrivo sempre e a proposito di tutto. Nel resto del tempo faccio workout e cerco di stare nella natura il più possibile. Odio le ingiustizie e sogno un futuro green.






