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Carne coltivata, sì o no?
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Foto: Ivy Farm da Unsplash.com
Il solo nome con cui la si identifica lascia spiazzati. Perché la carne non si coltiva. Almeno non fino a poco tempo fa. Eppure è oggetto di dibattito su molti fronti, compreso il Parlamento italiano che lo scorso luglio ha approvato in Senato un disegno di legge che ne vieta la produzione e la vendita (una delle misure di cui l’attuale Governo va orgoglioso in campo agricolo e alimentare ma un ddl che molti hanno definito “ideologico e fuori dal tempo”). Perché la politica – e con lei le associazioni di categoria – si esprime con tanto vigore su un argomento come questo, impedendo alle imprese italiane di investire nel settore? Perché la carne coltivata è antiscientifica e danneggia economia, ambiente e animali.
Ma lo è davvero?
Facciamo un passo indietro: cos’è la carne coltivata? Si tratta di un prodotto alimentare che si ottiene prelevando cellule da un animale vivo e sano, con una tecnica già utilizzata da tempo nel campo della medicina rigenerativa che ha l’obiettivo di riprodurre (coltivandole in un bioreattore come quelli usati per yogurt o bevande alcoliche come la birra o il vino) condizioni identiche a quelle del corpo animale sia a livello per esempio di temperatura e pH, sia a livello nutritivo. Pur essendo prodotta in laboratorio non è quindi carne sintetica, ma è a tutti gli effetti vera carne, derivando da cellule di un animale vivo. Perché quindi se ne vuole impedire la produzione e limitare la ricerca scientifica?
Le critiche sono molte e vanno dai costi agli impatti negativi in termini economici, ambientali e di salute. Diversi studi indagano l’impronta ecologica della produzione di carne coltivata rispetto alla carne prodotta convenzionalmente e si tende a giungere alla conclusione che, nonostante molti elementi da accertare, gli impatti complessivi della produzione di carne coltivata siano sostanzialmente minori di quelli provocati da una produzione convenzionale. Questo non significa che non sia un costo rilevante per l’ambiente in termini energetici (a meno che non si utilizzino in modo molto più diffuso energie rinnovabili), ma vanno considerati anche fattori come il consumo di suolo e di acqua o la deforestazione, associati alla produzione di carne tradizionale e considerati tra i principali fattori all’origine del riscaldano globale.
Senza contare l’azzeramento delle violenze sugli animali, che rappresenta un vantaggio indiscutibile, va inoltre considerato che la carne coltivata azzera il rischio di antibiotico-resistenza perché ne è priva, anche se presenta, come evidenziato dall’Organizzazione Mondiale per la Sanità (OMS), rischi connessi alla salute – peraltro gli stessi associati al consumo della carne convenzionale.
La mossa del Governo italiano di fatto lascia al mercato straniero la possibilità di investire su questo fronte e non potrà comunque impedire, se a livello europeo ne sarà approvata la produzione, di commercializzare sul mercato italiano carne coltivata prodotta oltreconfine, non raggiungendo l’obiettivo di evitarne il consumo ma favorendo un mercato non nazionale.
D’altro canto occorre riflettere sul fatto se la carne coltivata in laboratorio sia davvero una delle strade possibili per alleggerire il peso dei nostri consumi che incidono sulla crisi climatica, o se non rappresenti una delle tante “narrazioni verdi” che prendono all’amo un consumatore desideroso di dare il suo contributo, ma non sempre ben informato e che, magari inconsapevolmente, sostiene più l’industria delle agrotecnologie che non l’ambiente. Siamo sicuri che questa strada della carne coltivata ci incammini davvero verso una maggiore rigenerazione dei suoli, una più oculata tutela delle risorse idriche e una sovranità alimentare a livello di comunità? O che invece non sia un’operazione di marketing come tante altre, che inganna a favore di dinamiche di mercato che seguono logiche analoghe a quelle che si vuole far vedere di contrastare?
Varrebbe la pena, mentre non si esclude questa possibilità e si lascia spazio alla ricerca di sondarne più approfonditamente le ricadute, di considerare delle alternative non industriali ma più legate ai territori e ai suoi custodi: contadini e pastori, ma anche consumatori più attenti a ridurre l’impatto dei propri acquisti e delle proprie scelte alimentari.
Anna Molinari

Giornalista freelance e formatrice, laureata in Scienze filosofiche, collabora con diverse realtà sui temi della comunicazione ambientale. Gestisce il progetto indipendente www.ecoselvatica.it per la divulgazione filosofica in natura attraverso laboratori e approfondimenti. È istruttrice CSEN di Forest Bathing. Ha pubblicato i libri Ventodentro (2020) e Come perla in conchiglia (2024). Per la testata si occupa principalmente di tematiche legate a fauna selvatica, aree protette e tutela del territorio e delle comunità locali.