Abbiamo bisogno di cercare altri cammini

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Ricordo, o mi pare di ricordare, il misto di ansia, inquietudine, allegria che prendeva noi bambini quando, alla fine della cena della vigilia di Natale, stava per fare la sua apparizione, quasi una magia dei grandi, il panettone, quasi sempre un panettone, che veniva tagliato, distribuito, mangiato religiosamente, badando a non fare cadere una mollica, perché non solo era peccato (come peccato era fare cadere le molliche di pane), ma era parte non irrilevante dell’unica fetta che ci toccava. Eravamo all’inizio degli anni Sessanta del Novecento, il boom economico era giunto, a piccole dosi, anche nei più piccoli e miseri paesi e la fame nera, triste, ossessiva, che avevano vissuto le generazioni precedenti, e per cui i padri erano partiti in America, Germania, Nord Italia, cominciava a diventare un racconto, un ricordo (come era difficile per noi ricordare i ricordi degli altri), ma restava come una paura sotterranea, una minaccia sempre latente, un rischio immanente, non risolto per sempre.

Le famiglie come la mia, grazie all’America dei nonni e al Canada dei padri, al lavoro nelle campagne delle donne e di quelli che erano rimasti, potevano, con felicità e parsimonia, onorare la “tradizione”, il “digiuno della Vigilia” (era digiuno una vera e propria abbuffata, che in genere non prevedeva il consumo di carne) e consumare (a seconda delle località) le nove o tredici (a volte ventiquattro) “cose” a base di pasta, broccoli, stoccafisso, baccalà, alici o altro pesce, verdure, insalate, formaggio e frutta invernale, soprattutto castagne, noci, noccioli, arachidi, mele, arance, mandarini e torroni, susumelle, zeppole e altre varietà di dolci, in cui le mamme erano esperte. Poi cominciava la tombolata (si segnavano i numeri sulle cartelle con le bucce delle arance) e, alla passaggio della “novena”, suonatori e cantori di «Tu scendi dalle stelle», «Bambino Amabile», «Astro del ciel», uscivamo e correvamo dagli amici: qualcuno andava alla messa di mezzanotte, altri a farsi uno “stopparello” in qualche stanza fredda e umida, altri ancora a combinare monellerie in un paese che appariva davvero pieno come una mandra (Alvaro) e con il fascino della notte magica, in cui, a mezzanotte, come assicurava la canzone, dal cielo e dalle valli scendevano latte e miele.

Vi sembra una descrizione nostalgica e romantica del Natale dell’infanzia. Lo è. Ma se, alla mia età, con i tempi – le guerre, le crisi climatiche, le povertà) che “corrono”, se non inventassi, in parte, qualcosa di bello, almeno al passato, dovrei aspettare la fine facendo l’elenco del brutto e dell’orrendo, che abbiamo davanti. Non è che, anche da giovane, non vedessi miseria dei compagni, dolori della gente, separazione delle famiglie, fatiche dure e compagni scalzi e senza cappotto a cui portavamo le susumelle e i torroni, ma il fatto era che il tempo sembrava correre avanti, verso il bello, la ricchezza, la felicità, in una direzione che portava verso una fine lieta. E qualcosa di davvero terribile deve essere successo se, col tempo, non sentiamo più di tendere a un fine, un telos, un mondo nuovo da raggiungere, ma parliamo sempre più di Fine (non dimenticate che qualcuno, tanto per gradire, minaccia che potrebbe sganciare le atomiche)...

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