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Quando il calcio è sobrio (e vincente)
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Probabilmente inconsapevoli del fatto che non faccio il tifo né per l’una né per l’altra squadra, i miei amici canadesi mi stanno scrivendo numerosi per complimentarsi dei successi europei di Juventus e Milan (la “remuntada” del Barcellona non c’era ancora stata). Nella sua piccola quotidianità, forse poiché per la mia natura da bastian-contrario rimango propenso a gufare contro le italiane in Europa, rimango relativamente indifferente a questo fenomeno. Sarà anche che si tratta di una delle manifestazioni maggiormente tangibili di quel processo di omogeneizzazione dei prodotti culturali, dalla Coca-Cola ai Simpson e Hollywood, che ho studiato per alcuni anni all’università.
Lo sport, con tutte le sue funzioni pratiche, rituali e simboliche, rappresenta sicuramente una delle dimensioni più interessanti di questo processo di globalizzazione. Le Olimpiadi, la Formula 1, l’NBA sono alcuni degli esempi più evidenti. E poi la moderna Uefa Champions League, certo: una manifestazione luccicante che all’inizio del nuovo secolo ha preso il posto dell’antiquata Coppa dei Campioni, svecchiandola e sancendo il trionfo della globalizzazione in salsa capitalistica. A partire dal 1999 questo torneo si è dotata di un nome inglese, ha triplicando rendite e costi dei diritti televisivi e ha eliminato la maggior parte delle regole che imponevano restrizioni alla provenienza di calciatori. Il risultato di quest’enorme operazione di marketing è un torneo autenticamente, solennemente, indiscutibilmente globale: i team sono composti da giocatori provenienti da ogni parte del globo, incluse Africa, Asia, Americhe, Oceania; i proprietari dei club sono generalmente tycoon americani, oligarchi russi e sceicchi mediorientali; e a guardare le partite ci sono tantissimi asiatici costretti a svegliarsi nel cuore della notte. E anche i miei amici canadesi, che pur di guardarsi le partite in diretta si prendono una tregua dal lavoro o dall’università attorno all’ora di pranzo.
Tutti i club si sono adeguati a queste regole imposte da una sfrenata globalizzazione. I più competitivi sono quelli che fanno loro questa nuova realtà sfacciatamente plutocratica, gettando cifre da capogiro negli stadi e in campioni fenomenali. La settimana scorsa ero a Londra e uno dei cartelloni che maggiormente mi colpì era quello rivolto a una delle uniche squadre della capitale i cui investitori sono mediocri miliardari inglesi. Il cartellone diceva: “To save the team, we need emir-acle”, giocando sulle parole emirate, emirato, e miracle, miracolo. Per competere ai massimi livelli calcistici oggi evidentemente non basta il talento.
Eppure, alla regola della globalizzazione sfrenatamente mondiale e, per alcuni, sfacciatamente plutocratica, resiste un’eccezione. È il caso del Borussia Dortmund, definito dal Financial Times “un’esperienza più grintosa e locale – un-espressione del calcio dal volto umano”, “a grittier and more local experience – football with a human face”. Il Borussia, uno dei club calcistici tedeschi più titolati, fu la prima squadra tedesca a vincere una coppa europea (la Coppa delle Coppe 1965/66). La storia recente di questo club è tuttavia molto travagliata: dopo la sorprendente conquista della Coppa dei Campioni nel 1996/1997 (vincendo in finale proprio contro la Juventus, dopo aver sconfitto i campioni inglesi del Manchester United nella semifinale) e della Coppa Intercontinentale nel 1997, la squadra entrò in un periodo di risultati deludenti. Una cattiva gestione societaria portò a un pesante indebitamento e alla vendita dello stadio, il Westfalenstadion. Nel 2005, la società si è ritrovata sull'orlo del fallimento. Per salvarsi, il club ha rivoluzionato la struttura societaria e ha investito in un processo di rinnovamento basato su talenti fatti in casa e su una gestione del club per cui i tifosi hanno un ruolo fondamentale di controllo sul board decisionale. Gli allenamenti del Borussia sono aperti al pubblico e i salari dei giocatori sono mantenuti piuttosto bassi. I risparmi aiutano a tenere moderatamente bassi i prezzo dei biglietti, con il risultato di assicurare al Borussia Dortmund le più alte medie europee per frequenza media allo stadio, con una media di quasi 80.000 tifosi a partita. Il 30 aprile 2011, dopo 9 anni di attesa, il Borussia Dortmund è tornato a vincere la Bundesliga, il campionato tedesco, e la settimana scorsa, battendo la Shakhtar Donetsk, ha conquistato l’accesso ai quarti di finale di Champions League.
Il caso del Borussia non è l’unico in Europa. Alcuni mesi fa, su Unimondo avevamo accennato alla politica di gestione del club ciclistico basco Euskadi, che segue una filosofia analoga a quella dell’equivalente club calcistico Athletic di Bilbao. In questo caso, come in quello analogo del Celtic di Glasgow, la gestione casalinga orientata a investimenti sul talento locale riflette tuttavia il nazionalismo della regione e l’intento di preservare attraverso lo sport la cultura e l’identità locale. Il caso del Borussia Dormund, invece, ha radici diverse, di natura economica e sociale. La gestione di questa squadra di calcio pesca infatti a piene maniche dalla cultura economica del Ruhr, un modello famoso in tutto il mondo e generalmente contrapposto a quello anglosassone.
La competizione tra modello renano e modello anglosassone è un caso studio da manuale, frequentemente proposto nei corsi di sociologia economica e gestione d’impresa. Il modello renano si basa tradizionalmente su una struttura piccola orientata ai rapporti personali e alla protezione degli interessi dei principali investitori e sul lungo termine. Viceversa, l’impresa costruita sul modello anglosassone è orientata a una gestione fluida del capitale e a investimenti sul breve periodo, rispecchiando un orientamento maggiormente individualistico. La contrapposizione tra i due modelli, siano essi tradotti nella gestione di piccole imprese, banche, o squadre di calcio, ha modellato gli sviluppi economici e sociale dell’ultimo ventennio. Oggi restano pochi dubbi sul fatto che il modello anglosassone è emerso come il modello trainante della globalizzazione economica.
I successi del Borussia Dortmund in Champions League simboleggiano la rinascita del capitalismo in salsa renana. Seppur realisticamente improbabile, in molti sarebbero felici di vedere un successo del Borussia alla faccia di oligarchi, petroldollari e tycoon. Io, nel mio piccolo, spero che la visione localistica e in fondo anche un poco romantica espressa dal calcio del Borussia Dormund possa tornare a essere di moda; e nel frattempo continuerò, romanticamente si intende, a gufare contro le squadre italiane. Ma non ditelo ai miei amici canadesi.
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