Salute mentale

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La società per dirsi civile dovrebbe accettare tanto la ragione quanto la follia”. Franco Basaglia 

Introduzione

Le persone che soffrono di disturbi psichiatrici, in Italia, sono quasi un milione. Numeri in aumento non solo nel nostro Paese, ma anche a livello globale. L’Organizzazione Mondiale della Sanità, infatti, prevede che le malattie psichiatriche nei prossimi anni diventeranno le più diffuse, superando anche i problemi cardiovascolari. Lo stesso OMS afferma che “il peso globale dei disturbi mentali continua a crescere con un conseguente impatto sulla salute e sui principali aspetti sociali, umani ed economici in tutti i Paesi del mondo”. I disturbi mentali sono molti e diversi, così come sono molti e diversi gli approcci, i metodi, gli strumenti, le strutture con i quali si affrontano. Ovviamente è fondamentale l'accesso all'assistenza sanitaria e ai servizi sociali in grado di fornire cure e assistenza. I sistemi sanitari, però, non hanno ancora risposto adeguatamente al peso globale di malattia correlato ai disturbi mentali. Il divario tra la necessità di trattamento e la sua reale offerta è molto ampio in tutto il mondo. Nei Paesi a basso e medio reddito, il 76-85% delle persone con disturbi mentali non riceve alcun trattamento mentre in quelli ad alto reddito si scende a valori che variano tra il 35-50%.

Il divario esiste anche tra i diversi Paesi: ogni Stato ha un suo approccio alla salute mentale. Pensiamo ad esempio al Giappone, realtà ritenuta all’avanguardia in molti ambiti. Per quanto riguarda la salute mentale, il modello è bene o male quello dei vecchi manicomi, basato su strutture private e sulla contenzione più che sulla cura. Poi ci sono i Paesi martoriati da guerre e conflitti, che hanno evidenti ricadute sulla salute mentale. In Afghanistan, secondo un sondaggio dell'Unione Europea del 2018 riportato da HRW, l'85% della popolazione afghana ha vissuto o assistito ad almeno un evento traumatico. La carenza di risorse per fronteggiare la situazione però è allarmante. L'OMS afferma che il Paese ha all'incirca un solo psichiatra ogni 435 mila persone e uno psicologo ogni 333 mila persone e soli 200 posti letto disponibili nelle strutture pubbliche dedicate alla salute mentale. In molti Paesi africani è proprio l’approccio alla malattia mentale ad essere diverso. Esiste una gestione “culturale” della salute mentale: decine di persone partecipano alla sofferenza di un unico individuo in un rito collettivo. Come accade in Senegal. Questo approccio se da un lato nasconde l’evidenza che una malattia psichica può comportare, dall’altro concorre a irrobustire il senso di comunità svolgendo un ruolo fondamentale sull’equilibrio sociale dell’intera collettività.

E l’Italia? Nell’ambito della salute mentale è stato uno dei Paesi più innovativi nella seconda metà del Novecento. Il merito va soprattutto a Franco Basaglia, psichiatra veneto che ha saputo mettere in pratica un ideale – chiudere i manicomi – portando all’approvazione della Legge 180, il 13 maggio 1978. Ma a che punto siamo nel 2020? Oggi la situazione è complessa e disomogenea, con realtà all’avanguardia e altri luoghi in cui il modello dei vecchi manicomi non è ancora del tutto scomparso. 

Questa scheda cerca di approfondire il tema della salute mentale, con uno sguardo focalizzato principalmente sull’esperienza italiana: un inquadramento generale, la mobilitazione per la chiusura dei manicomi, l’approvazione della Legge 180/78, la situazione attuale e la presentazione di alcuni approcci virtuosi. 

La malattia mentale 

Come si legge in un prezioso materiale fornito dal Ministero della salute, la salute mentale e i disturbi mentali, come altri aspetti della salute, possono essere influenzati non solo da caratteristiche individuali quali la capacità di gestire pensieri, emozioni, comportamenti e relazioni con gli altri, ma anche da fattori sociali, culturali, economici, politici e ambientali, tra cui le politiche adottate a livello nazionale, la protezione sociale, lo standard di vita, le condizioni lavorative e il supporto sociale offerto dalla comunità. L’esposizione alle avversità sin dalla tenera età rappresenta un fattore di rischio ormai riconosciuto e prevenibile, per i disturbi mentali (OMS – Piano di azione per la salute mentale 2013 2020). La salute mentale è un continuum tra il sentirsi mentalmente bene e mentalmente malato. Ciascuno di noi può passare dallo stato di benessere a quello di disagio. Si parla di disagio mentale, disturbo mentale o malattia mentale. Se un disturbo mentale si stabilizza, le alterazioni mentali e del comportamento nonché la situazione che le ha determinate perdurano nel tempo, si vive una condizione di malattia mentale a lungo termine. Se tali disturbi non vengono trattati, la persona viene emarginata e, allo stesso tempo, può verificarsi una crescente disabilità che interferisce con la vita sociale e lavorativa.

La malattia mentale è fortemente stigmatizzata e stigmatizzante. Il pregiudizio che si accompagna alla malattia mentale e che deriva da paura e incomprensione, crea un circolo vizioso di alienazione e discriminazione, intesa come privazione dei diritti e dei benefici per la persona malata, la sua famiglia e l’ambiente circostante, diventando spesso la causa principale di un grave isolamento sociale, di difficoltà abitativa e lavorativa, di fenomeni di emarginazione. Le ricerche dimostrano, inoltre, che lo stigma è un’importante barriera che non solo allontana chi soffre dagli altri e da se stesso, ma riduce anche la capacità di richiedere aiuto e supporto.

Per moltissimi anni la malattia mentale è stata gestita esclusivamente da un punto di vista della contenzione. La persona con problemi psichici veniva considerata una minaccia per la sicurezza pubblica e quindi era marginalizzata e rinchiusa in strutture specifiche. Questo, ovviamente, non ha fatto altro che alimentare stigma e pregiudizi. Un cambiamento significativo è avvenuto, però, verso la metà del secolo scorso. 

Basaglia e la chiusura dei manicomi in Italia

Uno dei temi che ha infiammato il dibattito pubblico nell’Italia degli anni Settanta è stato quello legato al movimento sociale e politico nato intorno alla chiusura dei manicomi.

Il nome dello psichiatra veneto Franco Basaglia è stato una delle bandiere delle rivoluzioni degli anni Settanta e tanti giovani – ma non solo – si sono sentiti parte di un movimento che era etico, ancor prima che sociale e politico, e che voleva liberare dai lager manicomiali i 100.000 italiani che in quegli anni vi erano reclusi. Basaglia – assieme al movimento a lui legato - si faceva promotore della chiusura dei manicomi, l’abbandono dell’ottica “contentiva” dei malati psichiatrici e la nascita di servizi di salute mentale territoriali che avevano come compito fondamentale quello di ridare dignità al malato di mente e di curarlo il più possibile nei luoghi dove si svolgeva la sua vita.

Basaglia questi ideali, ancor prima che la Legge 180 venisse approvata, li aveva scritti nel suo celebre lavoro “L’Istituzione negata” e sperimentati a Gorizia. Di questi anni ci porta una preziosa testimonianza Franco Perazza, ex direttore del Dipartimento di salute mentale di Gorizia, che rivive così l'esperienza goriziana e l’impatto di Basaglia. «Qui a Gorizia il manicomio nasce sotto l'Impero austro-ungarico e lo realizza lo stesso architetto che ha progettato quello di Trieste. È il classico manicomio: porte chiuse, pazienti legati ai letti, elettroshock, insulino-terapia. Una cittadella ai margini della città con 500 internati. Va avanti così fino al novembre del 1961, quando arriva Franco Basaglia. Appena arrivato, vorrebbe andarsene: Si rende subito conto che la struttura somiglia più a un carcere che a un ospedale. Decide invece di restare e dà vita a un'esperienza unica. Tra il 1961 e il 1968 Basaglia mette in pratica le sue idee, evitando la segregazione, la contenzione e mettendo al centro l'uomo. In estrema sintesi: ridà diritti e dignità. Immette dosi di libertà, partendo dalle assemblee, alle quali possono partecipare i pazienti e decidere ad esempio cosa mangiare. Nel giro di alcuni anni porta a trasformare il manicomio da luogo di contenzione e detenzione a una comunità terapeutica. La porta è aperta. Non si reclude, ma si cura. In quegli anni Gorizia è avanguardia a livello mondiale. Questi approcci vengono applicati solo a Gorizia e i riflettori del mondo sono accesi su questa città di provincia. Una città incuriosita, che osserva con interesse: si organizzano feste all'interno della struttura, i pazienti escono dal manicomio e la gente quando li incontra per le strade chiede: "ma dove sono i “matti”? Dove sono quelli pericolosi". La risposta è che questi sono i “matti”: sono persone. 

Poi, però, accade quello che viene ricordato come “l'incidente”. Un paziente, uscito dal manicomio, commette un omicidio. Si scatenano subito molte le polemiche. Si scatena il caos. Anche perché Basaglia, in quei giorni, si trova all'estero per un convegno. Questo evento stravolge il sistema, arresta il processo. Basaglia non vuole tornare indietro. Non vuole riprendere a chiudere le porte. Non ha intenzione di far diventare i manicomi una "gabbia dorata" in cui magari si sta bene dentro. Bisogna far star bene le persone fuori, sul territorio: queste è la sua grande intuizione. Dopo “l'incidente”, però, la situazione precipita. Basaglia se ne va da Gorizia. Arrivano altri medici, se ne vanno molti che facevano parte della sua equipe. C'è un turnover frenetico. L'ospedale resta aperto, ma si perde slancio. Non c'è nessuna spinta nella direzione indicata da Basaglia: costruire lavoro e attività all'esterno, con Comuni ed enti locali. Si ripropone, di fatto, un modello ospedalizzato, medico-centrico, senza nulla intorno. Le porte sono aperte, ma si torna a legare i pazienti ai letti». Mentre a Gorizia il modello basagliano viene messo da parte, Basaglia va prima a Parma, poi a Trieste e - memore dell'esperienze goriziana - sa perfettamente cosa di deve fare per de-istituzionalizzare. Con l’appoggio dell’amministrazione provinciale, parte in modo deciso e rimette in atto i suoi principi a Parco San Giovanni, sede del manicomio triestino, divenuto poi simbolo della rivoluzione basagliano. Siamo nel 1975 e lo psichiatra veneto smonta letteralmente il manicomio in tre mosse: gli internati vengono dimessi e diventano ospiti; si dà lavoro e paga attraverso una cooperativa sociale; si creano sul territorio dei Centri di salute mentale, luoghi all'esterno dove le persone che hanno bisogno possono rivolgersi. Il modello che ispirerà la Legge 180, che sarà approvata di lì a tre anni. 

La Legge 180 del 1978

La legge viene approvata il 13 maggio 1978. Una conquista storica, rivoluzionaria, che porta alla chiusura dei manicomi in Italia e ridà diritti a chi soffre di disturbi psichici. La fine di un'epoca di dolore ed emarginazione. 

Questi i due punti essenziali della Legge, pubblicata nella Gazzetta Ufficiale il 16 maggio 1978:

  • Nei casi di cui alla presente legge e in quelli espressamente previsti da leggi dello Stato possono essere disposti dall'autorità sanitaria accertamenti e trattamenti sanitari obbligatori nel rispetto della dignità della persona e dei diritti civili e politici garantiti dalla Costituzione, compreso per quanto possibile il diritto alla libera scelta del medico e del luogo di cura.
  • Gli accertamenti e i trattamenti sanitari obbligatori a carico dello Stato e di enti o istituzioni pubbliche sono attuati dai presidi sanitari pubblici territoriali e, ove necessiti la degenza, nelle strutture ospedaliere pubbliche o convenzionate.

Si parla di “rispetto e dignità della persona e dei diritti civili e politici garantiti dalla Costituzione” e di “trattamenti (…) attuati dai presidi sanitari pubblici territoriali e (…) nelle strutture ospedaliere”. Il problema, però, è che uno di questi aspetti fondamentali - la cura dei pazienti sul territorio – viene applicato negli anni a seguire a macchia di leopardo nel nostro Paese. Senza una strategia unitaria. Con evidenti differenze da città a città, da provincia a provincia, da regione a regione. Ma questi aspetti li vedremo nel paragrafo successivo. Ora cerchiamo di capire in quale contesto e con quale portata è arrivata la Legge 180 nell’Italia di fine anni Settanta.

Daniele Pulino, docente in Sociologia dei fenomeni politivi all’Università di Sassari e collaboratore dell’associazione Franca e Franco Basaglia, autore del libro “Prima della Legge 180” (Edizioni Alphabeta) analizza così il clima che ha portato all’approvazione di questo importante provvedimento. «Tutti i Paesi occidentali, nel Dopoguerra, sono andati nella direzione di diminuire il manicomio come luogo centrale intorno al quale ruota l’idea della persona con disagio psichico. Quindi, in un modo o nell’altro, anche l’Italia avrebbe dovuto modificare l’impostazione manicomiale. Quello che possiamo dire è che con la Legge 180 del 1978 l’intervento del legislatore italiano è stato molto forte e deciso. Ha mostrato consapevolezza della situazione e la volontà di smantellare le strutture esistenti, nella convinzione che la società – anche dopo il Sessantotto – fosse pronta e preparata al passaggio». Un intervento deciso, che ha avuto anche il merito di affrontare senza mezze misure un tema come quello manicomiale, con un forte impatto sulla società italiana che ha visto il coinvolgimento – purtroppo non dappertutto – di associazioni, gruppi, enti per costruire una risposta collettiva e territoriale alla chiusura dei manicomi. 

Dal 1978 al 2020: tante velocità diverse

Subito dopo l’approvazione della Legge 180, l’Italia reagisce in tanti modi diversi. Un giudizio è unanime: si tratta di una rivoluzione. Molti, moltissimi, sono convinti che sia l’inizio di una svolta epocale. In molte realtà ci si dà subito da fare per cambiare, aprire, creare sinergie con cooperative, amministrazioni e territori. In altre, invece, si tende a lasciare le cose come stanno. Si rispettano le disposizioni di legge basilari, ma non si fa nulla di più. E in questo modo, senza uno spirito proattivo, la Legge 180 pensata da Basaglia resta “senza gambe”.

Succede quindi che in alcune realtà le strutture manicomiali restino in vigore fino alla metà degli anni Novanta. Vent’anni dopo l’approvazione della legge. Miriam Picciau, psicologa, ha lavorato all'interno del manicomio di Cagliari dal 1991 e racconta la chiusura dello stesso, arrivata solo nel 1998. «Dopo l'approvazione della legge ci sono voluti vent'anni per chiudere il manicomio. E c'è voluto soprattutto un ultimatum da Roma che minacciava di tagliare tutti i fondi per la salute mentale se non si fosse data attuazione alla Legge 180. C'erano tante resistenze, anche all'interno, fino alla fine. Molti medici pensavano che fosse una follia far uscire i pazienti sul territorio, ma fortunatamente ha prevalso la volontà di molti operatori di smontare questa macchina infernale». Come in altre realtà italiane, anche se per la chiusura totale c'è voluto tempo, già dopo il 1978 vengono messe in atto diverse dimissioni e le condizioni dei pazienti migliorano, anche se non sono ancora ottimali. «Ero nel reparto uomini – ricorda Picciau - e i bagni, solo per fare un esempio, non garantivano alcuna privacy. Le stanze erano camerate enormi, non c'erano armadi individuali, i guardarobieri custodivano gli abiti dei pazienti. Il cancello era aperto, ma non tutti uscivano e comunque la città era piuttosto "respingente". Poi, finalmente, nel 1998 è arrivata la chiusura. Non era facile gestire il "dopo" e abbiamo cercato di farlo nel modo più democratico possibile, dividendo i pazienti per bisogni assistenziali. Ricordo la cerimonia di chiusura, l'emozione del primo pranzo fuori di qui, con gli utenti, in una casa famiglia ad Assemini. C'era molto da costruire, ma un pezzo di libertà era stato conquistato».

E oggi qual è la situazione che ci troviamo davanti nell’ambito della salute mentale? Un quadro, a dire il vero non molto ottimistico, aiuta a farlo Renato Frisanco, ricercatore sociale, studioso di volontariato e terzo settore, che ha effettuato una ricerca sulla salute mentale a Roma con la Fondazione Don Luigi Di Liegro. «I dati raccolti ci mostrano una situazione decisamente complessa. Rischiamo di trovarci al punto di non ritorno. C’è un evidente calo del personale: mancano psicologi, assistenti sociali, terapisti della riabilitazione psichiatrica. I Centri di salute mentale sono sotto organico del 40-60%. Questo significa: accorpamenti, meno territorializzazione, approccio medico anziché relazionale. Insomma, quarant’anni dopo l’approvazione della Legge 180 abbiamo vissuto i primi quindici di lenta attuazione e adesso gli ultimi dieci-quindici anni all’insegna di una lenta ma inesorabile contrazione di risorse che rischia di portare alla chiusura di alcuni servizi minando le fondamenta della Legge. Tra il resto la nostra ricerca mostra come gli aspetti da migliorare per le famiglie e gli utenti siano appunto la relazione e la comunicazione. Per il 69% degli utenti intervistati l’aspetto più importante è la relazione, per il 62% il sentirsi seguito. La criticità maggiore, dal loro punto di vista, è invece l’accoglienza: il 14% va all’accoglienza, ma non si presenta all’incontro. Bisognerebbe chiedersi perché c’è questa perdita di contatto. Probabilmente per mancanza di gentilezza, attenzione, considerazione… Utenti e familiari chiedono più umanità e vicinanza, ma servizi sempre meno territoriali e sempre più a corto di risorse non riescono a dare risposte adeguate a questi bisogni. La carenza di personale, inoltre, rappresenta un problema perché comporta una “selezione” degli utenti: ho meno risorse a disposizione, quindi tratto solo i casi più gravi. Questo, però, in salute mentale comporta due gravi conseguenze: da una parte si creano reparti con molti acuti, ricreando l’atmosfera manicomiale; dall’altra si aumenta lo stress degli operatori. La presa in carico, quindi, diventa medico-centrica: una mera erogazione di visite specialistiche anziché un’erogazione di servizi in equipe». La sensazione di molti è che la Legge 180 abbia chiuso i manicomi, ma siano poi stati aperti tanti “manicomietti” perdendo di vista l’invito di un approccio biopsicosociale che si prenda cura del paziente psichiatrico a 360 gradi sia con terapia farmacologica che con terapia di riabilitazione attraverso attività socializzanti e di empowerment. 

Le buone pratiche: il fareassieme e gli UFE

L’alternativa a un approccio manicomiale è mettere insieme operatori, familiari e utenti. Ed è quello che è stato fatto, per esempio, a Trento dove è nato il modello del “fareassieme”, che fa riferimento a tre aspetti fondamentali.

  • Credere nel valore della responsabilità personale. 

Anche la persona che attraversa un periodo di disturbo estremo può esprimere un suo livello di responsabilità. Attribuirgliela, riconoscergliela, significa aver maturato la convinzione che l’utente entra nei percorsi di cura con un ruolo attivo e si farà di tutto per favorire la condivisione. Tutto questo è impossibile se si considera la persona irresponsabile, come troppo spesso viene giudicato chi soffre di un disagio psichico importante.

  • Credere che il cambiamento sia sempre possibile. 

Per non dire più che un utente non cambierà mai, nonostante gli sforzi fatti. Il “fareassieme” non ha alcun senso se non si crede fermamente in una possibilità di cambiamento. Il cambiamento è possibile solo se tutti ci credono. Mettersi in cerchio e scambiarsi le proprie difficoltà porta a credere in quel cambiamento e a costruirlo insieme.

  • Credere che ognuno abbia delle risorse e non solo dei problemi. 

Troppo spesso i pregiudizi accompagnano chi soffre di un disturbo psichico importante. Per questo è necessario cambiare paradigma. La persona non è un problema, ma è una persona che ha dei problemi. Come tutti. Chi più, chi meno. E così la persona, oltre ad avere dei problemi, ha anche delle risorse. Se si cambia paradigma si può favorire un percorso partendo dalle risorse di ognuno. Un percorso che permette di (ri)trovare qualità di vita, appartenenza alla comunità, dignità. Oggi tutto questo viene chiamato recovery e la strada per percorrerla trova nel “fareassieme” il migliore dei catalizzatori. 

Il principale biglietto da visita del “fareassieme” sono gli UFE (Utenti Familiari Esperti): un’esperienza che rientra in quel vasto movimento che affonda le radici nel mondo anglosassone sotto il nome di peer support, ovvero supporto tra pari.

«Gli UFE – come spiega Renzo De Stefani, per vent’anni primario del Servizio di salute mentale di Trento - nascono nel 2004 a Trento. Il “fareassieme” e le sue azioni hanno preso piede e sono molti gli utenti e i familiari che, in questo periodo, partecipano con crescente passione. Non manca incontro in cui gli utenti e i familiari più presi dal “fareassieme” non chiedano una maggiore partecipazione alle pratiche del Servizio. 

È un periodo di fermento e tra incontri formali e cene informali in cui si ritrovano utenti, familiari e operatori si sente l’esigenza (e il desiderio) di non far cadere nel vuoto questa richiesta. Si pensa, così, che un modo molto coerente con il “fareassieme” sia quello di far entrare dentro il Servizio gli utenti e i familiari che se la sentono. L’idea è chiara sin dall’inizio: utenti e familiari entrano a fianco degli operatori, per portare il valore del loro sapere esperienziale, mettendolo a disposizione di utenti e familiari, loro pari, che ancora vivono con sofferenza il disagio psichico».

Oggi gli UFE che operano all’interno del Servizio di salute mentale di Trento sono circa 40, alcuni a tempo pieno e altri a tempo parziale a seconda delle disponibilità e dei compiti, per un totale di circa 22.000 ore di attività l’anno. L’UFE viene remunerato per la sua attività dall’Azienda sanitaria, tramite una delle due associazioni partner del Servizio di salute mentale. Il valore aggiunto dell’UFE è l’apporto che dà agli altri protagonisti. Per gli operatori rappresenta una maggiore apertura e attenzione al mondo degli utenti e dei familiari. Per gli utenti e i familiari maggiore fiducia e adesione verso le offerte del Servizio. Per l’UFE stesso questo ruolo significa una migliore qualità della propria vita. Kulturum, importante Centro di ricerca svedese sulla qualità in sanità, ha ritenuto gli UFE una delle esperienze più significative degli ultimi anni a livello internazionale. Questo perché la presenza dell’UFE nel Servizio fa leva sulla centralità dell’utente nel percorso di cura, una delle sei variabili che permettono di garantire la qualità totale in sanità, variabile difficile da trovare fuori dai meri enunciati di principio. 

Cosa succede nel mondo? Uno sguardo dal Kenya al Giappone

Abbiamo appena citato un centro di ricerca svedese, quindi cerchiamo di aprire gli orizzonti anche fuori dall’Italia. In un panorama davvero variegato, ci sono alcune realtà, in alcuni Paesi, che si sono ispirate all’approccio del fareassieme, proponendo queste pratiche anche al fuori dai nostri confini. Accade, ad esempio, in Brasile dove il fareassieme è arrivato quasi per caso nel 2005, sbarcando a Ijuí, una piccola città a 500 chilometri da Porto Alegre, capitale dello Stato brasiliano del Rio Grande do Sul. Un gruppo di “ambasciatori” del fareassieme, dopo una serie di conferenze e l’incontro con la locale realtà della salute mentale, ha dato vita alla casa del fareassieme di Ijuí. Una strada avviata anche in Kenya nell’agosto del 2018, quando - grazie alla storica partnership che lega Fondazione Fontana Onlus e Saint Martin di Nyahururu - una delegazione trentina ha trascorso una settimana al Saint Martin partecipando a diversi incontri per conoscere e capire una realtà molto lontana da quella italiana e cercare di portare aiuto al mondo del disagio psichico anche attraverso il fareassieme. Già dal 2016, invece, a Kragujevac nel cuore della Serbia, l’associazione LUNA2015 è diventata la prima realtà di utenti e familiari della Serbia Centrale a promuovere i diritti umani e l’integrazione socio-economica delle persone con disagio psichico. Un impegno congiunto di utenti, familiari, istituzioni locali, dell'Associazione Trentino con i Balcani e dell’Azienda Provinciale per i Servizi Sanitari di Trento che hanno permesso a LUNA2015 di crescere, arricchirsi e diventare un punto di riferimento prezioso all’interno della comunità di Kragujevac, proprio come è accaduto a Kagoshima, una città nel sud del Giappone. Qui, nel 2015, la sintonia con i principi del fareassieme è nata visitando il Servizio salute mentale di Trento e grazie al Laguna Group ha dato vita a un'esperienza atipica per il Giappone, dove tutto ruota ancora attorno ai manicomi privati e tradizionali che ospitano ancora 350.000 ricoverati.

Link consigliati per approfondire:

http://www.salute.gov.it/imgs/C_17_opuscoliPoster_422_allegato.pdf Fatti e cifre contro lo stigma - Un opuscolo della Ministero della Salute

https://www.epicentro.iss.it/mentale/ Il portale a cura dell'Istituto Superiore di Sanità

https://www.who.int/mental_health/en/ Focus dell'Organizzazione Mondiale della Sanità

https://www.unimondo.org/Notizie/Avere-una-malattia-mentale-a-Dakar-2-194433 - Uno sguardo sulla salute mentale in Senegal

http://www.salute.gov.it/imgs/C_17_normativa_888_allegato.pdf Testo della Legge 180 del 1978

http://www.fondazionefrancobasaglia.it/ Fondazione Franco Basaglia

http://www.leparoleritrovate.com/ Le Parole Ritrovate

https://www.unimondo.org/Notizie/Paese-che-vai-fareassieme-che-trovi!-190426 Il fareassieme nel mondo

Scheda realizzata da Jacopo Tomasi

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