Ora tocca a noi

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Murales del caracol zapatista di Oventic, Chiapas - Foto: di Alice Pistolesi

Era un 1 gennaio. E se il primo giorno dell’anno è comunque l’inizio di qualcosa o almeno lo percepiamo così, quel 1 gennaio del 1994 fu davvero l’inizio di un’avventura. 

Andiamo per odine. Ero in Chiapas, quel giorno. Vivevo da qualche mese a San Cristobal de Las Casas, in fuga dalle guerre nei Balcani. Fu per caso che mi ritrovai ad essere il primo giornalista europeo a raccontare l’inizio della rivoluzione zapatista. Accadde di notte, uscendo dal ristorante in cui avevamo festeggiato il passaggio dell’anno affogandolo in molto alcol e una buona dose di cibo. L’occupazione della città da parte dell’Esercito Zapatista di Liberazione Nazionale - l’Ezln - iniziò mentre c’era la festa, prendendo le postazioni strategiche e occupando il municipio. La confusione fu immediata e tanta, come il panico di turisti e popolazione. Più lento fu capire cosa stava accadendo. Solo all’alba, nel zocalo, la piazza principale, chiesi ad un tipo alto, con passamontagna e pipa, chi comandasse lì. Mi guardò e mi disse “Comando io”. Avevo conosciuto il subcomandante Marcos.

Al di là del ricordo, quello di cui mi resi conto dopo, negli anni, è che quella mattina del 1 gennaio 1994 mi ero ritrovato a vivere l’inizio di una nuova fase della storia mondiale. Non sto esagerando, lo raccontano i fatti, lo dice quello che accadde dopo. Per scoprirlo, basta ricostruire pazientemente cosa accadde negli anni successivi. Dal Chiapas, dalla rivoluzione voluta e pensata da un pugno di popoli maya sfruttati da secoli, nacque il più serio e importante tentativo di dire basta alla dominante cultura del turbocapitalismo neoliberista. Pareva dominante e invincibile. Gli indigeni maya dimostrarono che non era così. Fecero capire che esistevano spazi di rivolta e cambiamento. Certo, bisognava andare a prenderseli, ma c’erano.

In quegli anni, ricordiamolo, gli Stati Uniti si erano autoproclamati “sceriffi del Mondo”. L’Unione Sovietica era collassata tre anni prima, trascinando nel gorgo anche gli ideali e i modelli alternativi al neo capitalismo statunitense ed europeo. Le voci di dissenso erano rimaste poche, isolate e ridicolizzate. Soprattutto, non c’erano riferimenti, tutto pareva scritto e deciso. Vinceva la rassegnazione.

All’improvviso, si riaccese la luce. Dal Chiapas, al grido di “Tierra y Libertad” arrivò un’alternativa. Un’idea che rimetteva gli esseri umani al centro della vita quotidiana e sposava il locale, cioè l’identità indigena e campesina, all’internazionale, vale a dire una visione diversa della distribuzione della ricchezza e dei diritti di tutti e di chiunque. Era un’idea così semplice e così forte da fermare quello che pareva l’inevitabile trionfo dell’iper capitalismo neo liberista, privo di regole e di umanità.

Dal Chiapas le parole degli zapatisti arrivarono ovunque. Nacquero decine di movimenti alternativi, che si aggregarono, iniziando a riformulare idee e ipotesi, a dire “ora basta”, a protestare. Iniziarono i confronti, si crearono i Forum Mondiali, si affermarono visioni diverse del pacifismo, dell’ambientalismo

Per quasi un decennio, le alternative sembrarono possibili. 

È vero: poi, di nuovo, tutto cambiò. Le voci dell’alternativa vennero messe a tacere o finirono per essere inglobate, masticate e rielaborate dal sistema. In Chiapas, la rivoluzione voluta dal popolo indigeno resiste, ma non ha vinto. La gente continua a morire di diarrea, in case prive di servizi e di pavimento. Nei campi ci si schianta ancora dal lavoro, per ricavare poca paga e fare ricco qualcun’altro. Certo, l’Ezln c’è ancora e vigila sul territorio, ma la spinta rivoluzionaria si è esaurita da tempo.

Un fallimento, quindi? No, tutt’altro. La rivoluzione zapatista resta e rimarrà un modello possibile di cambiamento. E il 1 gennaio del 1994, esattamente trent’anni fa, è una data da ricordare come data importante della storia umana. È il giorno in cui alcune donne e uomini di una sperduta regione americana gridarono al Mondo che cambiare è possibile. Loro ci hanno provato. Ora tocca a noi. 

Raffaele Crocco

Sono nato a Verona nel 1960. Sono l’ideatore e direttore del progetto “Atlante delle Guerre e dei Conflitti del Mondo” e sono presidente dell’Associazione 46mo Parallelo che lo amministra. Sono caposervizio e conduttore della Tgr Rai, a Trento e collaboro con la rubrica Est Ovest di RadioUno. Sono diventato giornalista a tempo pieno nel 1988. Ho lavorato per quotidiani, televisioni, settimanali, radio siti web. Sono stato inviato in zona di guerra per Trieste Oggi, Il Gazzettino, Il Corriere della Sera, Il Manifesto, Liberazione. Ho raccontato le guerre nella ex Jugoslavia, in America Centrale, nel Vicino Oriente. Ho investigato le trame nere che legavano il secessionismo padano al neonazismo negli anni’90. Ho narrato di Tangentopoli, di Social Forum Mondiali, di G7 e G8. Ho fondato riviste: il mensile Maiz nel 1997, il quotidiano on line Peacereporter con Gino Strada nel 2003, l’Atlante delle Guerre e dei Conflitti del Mondo, nel 2009. 

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