Vivere in Ciad ed emigrare in cerca di futuro

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Nell’estate del 2017, al margine del Vertice di Parigi sull’immigrazione, il presidente del Ciad Idriss Déby si era detto favorevole a individuare soluzioni per intervenire sulla piaga delle migrazioni. Tuttavia aveva anche evidenziato che, al di là dell’impegno di tutti gli Stati, esiste un problema di fondo; aveva allora domandato in maniera quasi retorica alla platea: “Cos'è che spinge i giovani africani ad attraversare il deserto a rischio della loro vita? È la povertà. La mancanza di istruzione. Sono tutti elementi da tenere in considerazione”. Come a dire che è alto il livello di complessità che induce alla decisione di emigrare ed è possibile incidere in questa matassa solo prendendo atto che, per limitare il fenomeno alla radice, occorre mutare alcuni assetti politici economici e sociali che determinano disuguaglianza sociale. 

Déby non parlava a vanvera. I dati recenti dell’International Crisis Group, ong transnazionale attiva nella ricerca in materia di conflitti e pace, hanno rilevato che molti giovani delle regioni occidentali del Ciad (Kanem e Bahr El Gazel) stanno emigrando verso il Nord del Paese o la Libia per ragioni tanto economiche quanto politiche. Trovare un lavoro, fare commercio o tentare fortuna in Libia o nelle miniere d’oro della regione montuosa ciadiana di Tibesti, spinge a emigrare nelle regioni limitrofe e fornisce ad alcuni di loro la possibilità di incapparsi in milizie armate nelle quali individuano un loro ruolo e la loro “opportunità”. L’intera regione è, infatti, interessata da una esplosione di violenze collegate al gruppo terroristico nigeriano Boko Haram che, dalla sua nascita nel 2009 ad oggi, si calcola abbia toccato direttamente 10,7 milioni di persone, determinato quasi 2 milioni e mezzo di sfollati ed esposto 5 milioni di persone a rischio di insicurezza alimentare. Una situazione emergenziale che ha indotto Niger, Ciad ma anche Libia e Sudan a firmare lo scorso 4 aprile un Protocollo per la sicurezza dei confini comuni, trasformato rapidamente all’inizio dell’estate in un Accordo siglato a N’Djamena per l’istituzione di un JOC (Joint Operations Centre), ossia un meccanismo di cooperazione per la sicurezza delle frontiere e la lotta contro il crimine organizzato transnazionale

Nella stessa direzione va probabilmente la ripresa del dialogo del Ciad con Israele in materia di cooperazione nel campo della sicurezza, ossia nella lotta al terrorismo. Nonostante il riavvicinamento e l’attivazione di programmi di collaborazione, le relazioni diplomatiche del Ciad con Tel Aviv restano ufficialmente interrotte dal 1972. N’djamena continua però a tessere nuovi rapporti diplomatici o a rinnovare quelli storici: è di poche settimane fa la notizia che la Francia ha messo a disposizione del Ciad (con prestiti e donazioni) circa 50 milioni di euro per pagare i compensi del mese di dicembre dei circa 90mila funzionari (militari inclusi) e le pensioni dei funzionari statali per i successivi tre mesi. Altri 10 milioni di euro sono stati disposti da Parigi per il settore sanitario ciadiano. È evidente il tentativo europeo di rafforzare il governo del Paese, in forte contestazione popolare a causa della crisi economica dovuta al calo del prezzo del greggio e della presenza ininterrotta dal 1990 alla presidenza di Déby. 

Tuttavia, come riconosciuto dallo stesso capo dello Stato ciadiano, gli interventi mirati a irrigidire il controllo alle frontiere o le iniezioni di liquidi per far fronte alle spese di bilancio sono solo provvedimenti tampone che possono arrestare il malcontento di piazza e l’esasperazione che induce all’emigrazione ma in maniera del tutto temporanea. Il Ciad, al pari del Niger e del Mali, gli altri territori del cosiddetto Sahel, soffre per l’alto tasso di desertificazione in corso. È sotto gli occhi del mondo la devastante crisi ambientale che dal 1960 ad oggi ha determinato unariduzione della superficie del lago Ciad del 90%, negando una fonte di trasporto, lavoro e fabbisogno alimentare ed idrico per persone, animali e colture. L’emergenza alimentare è costante, con un tasso di malnutrizione acuta che si aggira quasi al 20% tra i bambini di età compresa tra i 6 e i 59 mesi. L’economia, di pura sussistenza, dipende ancora fortemente dall’agricoltura e dall’allevamento e, a causa delle continue siccità, la produzione agricola si è drasticamente deteriorata negli ultimi anni con una differenza in negativo del 51% per i cereali, situazione che ha causato il brusco rialzo dei prezzi dei prodotti. La malnutrizione e la scarsa produttività sono solo due degli elementi che classificano il Ciad come uno dei Paesi più poveri dell’Africa: 186° su 188 Stati del mondo, secondo i dati 2016 dell’Indice di Sviluppo Umano messo a punto dallo United Nations Development Programme (UNDP). Gli attacchi di Boko Haram, la limitata democratizzazione del Paese, la pressoché limitata tutela dei diritti umani rendono il Paese un crocevia dei molti problemi insoluti del continente africano e una inarrestabile emorragia di giovani che emigrano in cerca di un futuro diverso, un diritto loro negato in patria.

Miriam Rossi

Miriam Rossi (Viterbo, 1981). Dottoressa di ricerca in Storia delle Relazioni e delle Organizzazioni Internazionali, è esperta di diritti umani, ONU e politica internazionale. Dopo 10 anni nel mondo della ricerca e altrettanti nel settore della cooperazione internazionale (e aver imparato a fare formazione, progettazione e comunicazione), attualmente opera all'interno dell'Università degli studi di Trento per il più ampio trasferimento della conoscenza e del sapere scientifico.

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