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“Viva la Repubblica! Viva la Francia!” … Viva la guerra!
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A pochi giorni dal cruento attacco terroristico che ha colpito Parigi la sera del 13 novembre, molte parole sono state spese. Alla commozione, al cordoglio e alla rabbia, sono seguite le ricostruzioni approssimative dell’assalto e le storie delle giovani vittime e degli altrettanto giovani carnefici, finite in un unico calderone mediatico assetato di morbosa curiosità.
È stato poi quasi subito il momento della politica. Il presidente François Hollande, dinanzi al Parlamento congiunto riunito a Versailles e poi alla conferenza dei sindaci francesi, ha con fermezza accennato all’imposizione dello stato d’emergenza e alla reintroduzione dei controlli alle frontiere, alle misure eccezionali con la limitazione temporanea di alcune libertà e alle modifiche straordinarie della Costituzione, per consentire di irrigidire le ispezioni e i poteri di polizia e intelligence. E in men che non si dica è stato soprattutto il momento della guerra: “La Francia è in guerra”, ha esordito Hollande dinanzi ai parlamentari francesi. Un termine in questi giorni tornato prepotentemente sullo scenario politico e mediatico, legittimato dal tributo di sangue versato a Parigi. La parola “guerra” è mancata a lungo nel dizionario degli europei nei forum e nei dibattiti internazionali, sostituita dalle più tranquillizzanti espressioni “intervento chirurgico”, “opzione armata”, o “avvio di una coalizione dei volenterosi”. Rievoca i ricordi di una generazione ormai anziana che giusto lo scorso anno ha celebrato il centenario dell’inizio della Grande Guerra e che, da allora, con alle spalle un secondo conflitto mondiale, sembrava aver interiorizzato e trasmesso ai propri discendenti gli anticorpi per una convivenza civile di Stati e individui.
Così non pare affatto. Un’ovazione ha accolto i discorsi da “commander in chief” di Hollande di questi giorni e le parole di cordoglio degli altri leader occidentali si sono presto affiancate ad analoghi discorsi sul rafforzamento dei sistemi di sicurezza, anche con l’avvio di una vasta e intensa operazione bellica che dia una qualche soluzione alla polveriera siriana, come auspicato dallo stesso presidente francese. Un’intenzione peraltro ben tramutata in realtà a poche ore dagli attentati di Parigi. La prima risposta data dal governo francese al terrorismo, ossia alla violenza armata indiscriminata portata sul suo territorio, è infatti consistita in una serie di bombardamenti aerei, altrettanto violenti e indiscriminati, su Raqqa, la capitale dell’autoproclamato Stato islamico in Siria. Un gesto che determina ben poche modifiche sullo scacchiere geopolitico del territorio, laddove da tempo già insistono gli attacchi aerei di diverse potenze, ancora piuttosto divisi sugli interventi e sul fronte a cui prestare il supporto. Mentre le perquisizioni e i controlli si moltiplicano in tutta Europa e si diffonde una vera e propria psicosi di un nuovo attacco terroristico targato Isis in un altro luogo simbolo dell’Occidente, i riflettori si riaccendono nuovamente sulle migliaia di profughi che insistono sulle frontiere europee.
Su di loro, “i rifugiati”, Hollande ha speso alcune parole. “Alcuni hanno voluto trovare un legame con l’arrivo e l’attentato. Forse un legame esiste, ma la grande maggioranza di questi siriani che arrivano va altrove”. Non smentendo la diretta (e inesatta) correlazione tra afflusso di migranti dalla Siria e attacco terroristico a Parigi, su cui in troppi stanno versando benzina sul fuoco promuovendo messaggi di odio xenofobo e razziale, il presidente francese sembra rinunciare a ricercare le ragioni che inducono non guerriglieri dell’Isis giunti dall’estero, ma giovani cittadini francesi, cresciuti nel Paese, ad aderire alla lotta jihadista e a “immolarsi per la causa” portando con sé un pesante carico di altre vite umane. L’individuazione di tutte le possibili modalità di infiltrazione dell’ideologia di odio e fanatismo promosso dall’Isis non può ragionevolmente avere la meglio sulla ricerca delle cause che le permettono di trovare terreno fertile. Allora le risposte non possono che essere identificate nella povertà, in una fragile identità, nell’emarginazione sociale, tutte fondamentali leve di reclutamento per l’Isis.
Non vi è accenno a questi temi nei discorsi del presidente Hollande come in quelli degli esponenti del governo francese. Sembra smarrita la bussola politica che ha condotto la Francia dell’Illuminismo a teorizzare la concezione della tolleranza, intesa come un valore necessario a garantire la coesistenza fra gli individui, a proclamare la prima Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino nel 1789, agli albori della Rivoluzione francese, e a prestare la propria riflessione all’ideazione della Dichiarazione universale dei diritti umani adottata in sede ONU nel 1948. Oggi molte di queste parole d’ordine, alla base di discorsi e decisioni politiche, appaiono trasformate. La coesione sociale è intesa solo come un’arma rivolta contro lo Stato islamico, il nemico dichiarato e comune. Il noto “Liberté, Égalité, Fraternité” appare un costante richiamo all’unità nazionale prima ancora che ai diritti e alle libertà che il motto costituzionale sottintende. La pace del Premio Nobel conferito all’Unione Europea solo nel 2012 “per il contributo dato per oltre 60 anni dall'UE alla promozione della pace e riconciliazione, della democrazia e dei diritti umani” appare soccombere sotto i proclami e gli appelli alla guerra. L’equazione maggiore vendita di armi uguale aumento dei conflitti è superata dalla correlazione fra l’aumento della diffusione delle armi e una più efficace difesa della popolazione civile dall’Isis o da altre fazioni del terrore nei teatri di guerra attivi. Infine la parola sicurezza assume fattezze di un passe-partout per imporre una limitazione dei diritti degli individui, per far trovare accoglienza a una guerra, per rispondere all’odio con altrettanto odio in un sequel senza tempo alla “occhio per occhio e dente per dente”.
Miriam Rossi

Miriam Rossi (Viterbo, 1981). Dottoressa di ricerca in Storia delle Relazioni e delle Organizzazioni Internazionali, è esperta di diritti umani, ONU e politica internazionale. Dopo 10 anni nel mondo della ricerca e altrettanti nel settore della cooperazione internazionale (e aver imparato a fare formazione, progettazione e comunicazione), attualmente opera all'interno dell'Università degli studi di Trento per il più ampio trasferimento della conoscenza e del sapere scientifico.