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Violenza: sono solo parole?
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In generale sono diventato diffidente verso quelle letture della società che mettono in luce unicamente gli aspetti problematici, perché nella loro parzialità rischiano di farci perdere di vista il quadro d’insieme, enfatizzando singoli aspetti negativi e dimenticando di raccontare le esperienze positive e costruttive che ci permettono di vivere assieme. Ma ci sono comportamenti sociali che devono essere presi in seria considerazione perché sono il sintomo di cambiamenti profondi, e una loro sottovalutazione alla fine rischia di non farci cogliere segnali che meritano invece tutta la nostra attenzione e che non possono essere trascurati. È il caso della violenza verbale e della rissosità che caratterizzano i nostri canali informativi, che hanno raggiunto il livello di guardia e che sono il segnale di un deterioramento profondo del linguaggio e delle relazioni umane. Un fenomeno, questo, che riguarda tutti i mezzi di informazione, dalla TV alla carta stampata, fino ai blog su internet che rappresentano oggi il luogo nel quale è possibile con più facilità dare libero sfogo alla ferocia delle parole. Il problema è molto serio, perché la parola non è un accessorio tecnico ma è coessenziale alla natura umana stessa, e di fronte a un’escalation della violenza verbale che sembra fuori controllo viene da chiedersi se i cittadini siano unicamente spettatori impotenti o se invece non siano, più verosimilmente, ingranaggi consapevoli e compiacenti dello stesso meccanismo.
Difficile riconoscere un unico punto di partenza per questo processo. Hanno contribuito anni di programmi televisivi nei quali si impongono lo scontro e l’offesa reciproca sull’ascolto e il rispetto, la gestione irresponsabile di tanta stampa come di una clava da brandire contro l’avversario, un dibattito politico la cui cifra prevalente è l’aggressività. A tutto questo, però, va aggiunto il crescente e incontrollabile ricorso all’odio che si esprime su internet: navigando anche solo velocemente nei blog ci si imbatte ormai sempre più frequentemente in un linguaggio la cui ferocia non ha più alcun limite. Possiamo ben dire che in molti casi l’anonimato permette di far emergere il lato peggiore di sé; ma il rancore sordo che caratterizza questo nuovo luogo virtuale di scontro on line è a dir poco impressionante. All’altro – che ha come unica colpa quella di essere diverso da chi scrive o di pensarla diversamente – si augura senza mezzi termini di ricevere “una pallottola in bocca”, di essere “squartato con un coltello da macellaio”, di “morire al più presto divorato da un cancro”, solo per dirne alcune… E l’altro verso il quale si scatena questa violenta campagna di odio non è solo l’avversario politico, ma anche l’immigrato, l’omosessuale, l’abitante di un’altra regione, il credente di un’altra fede, il giornalista di una testata che non si ama, il docente di una scuola e così via. Colpisce, in tutto questo, non solo la gratuità della violenza, ma soprattutto la perdita di freni inibitori e l’impressione che quella violenza crescente, che si scatena nel popolo dei “navigatori” su internet, sia la punta di un iceberg e indichi una patologia nascosta molto più diffusa della quale fanno parte anche coloro che hanno sdoganato parolacce e offese sui grandi mezzi di informazione.
Che una società viva fasi nelle quali la parola sia posta al servizio del rancore e dell’odio non è una novità. Senza andare troppo lontani, il secolo scorso è costellato di tragedie che sono state anticipate da un sapiente abuso della parola. E anche nella storia della nostra Repubblica abbiamo assistito a fenomeni di violenza diffusa che sono stati preparati dalla parola. Ma ciò che oggi stupisce, in questo fenomeno, è il fatto che questa violenza del linguaggio non nasce da rivendicazioni sociali collettive, ma sembra piuttosto essere il risultato di processi manipolatori che sono spesso funzionali al potere politico. E non manca chi, nell’informazione, ha deciso di cavalcare questo clima di scontro e di violenza, usando la denigrazione e l’offesa come armi legittime e giustificabili sul piano professionale. In tutto questo il vero problema non è da ricercare sul piano giuridico, stabilendo cosa è legittimo dire e quali siano i confini fra il linguaggio “legittimo” e quello che va invece stigmatizzato e punito. Il problema mi sembra stia invece nell’abbrutimento delle persone, nella distruttività sul piano delle relazioni, nella perdita del senso della propria dignità e di quella degli altri.
Siamo dunque entrati in un clima di odio destinato solo a peggiorare?
In una recente intervista rilasciata a un importante quotidiano nazionale, il presidente della Ipsos, Nando Pagnoncelli, invitava alla prudenza nell’uso della parola “odio” per descrivere la situazione nella quale ci troviamo, ma contemporaneamente metteva in luce la progressiva radicalizzazione del conflitto sotteso a questo imbarbarimento del linguaggio, a qualsiasi livello esso si svolga. Secondo Pagnoncelli sono tre i caratteri di questa deriva: l’estremizzazione degli scontri, con l’annullamento delle posizioni intermedie e la colpevolizzazione di chi non si schiera agli estremi, di chi punta sul dialogo; la semplificazione della realtà attorno ad atteggiamenti che Pagnoncelli descrive come “etnici” o “da tifoso”, con quel corredo di rinuncia alla ragione che questo comporta; infine la mancanza di responsabilità della politica che, attraverso la logica dello scontro, contribuisce ad aggravare questo clima di conflitto.
Esistono antidoti contro questo abbrutimento delle parole? Non è facile, ancora una volta, prevederlo. Da una parte mi sembra che si tratti di un processo difficilmente reversibile in tempi brevi: quando si imboccano strade che spingono verso l’inferno delle relazioni occorre spesso toccare il fondo per avere un lampo di coscienza e tornare indietro. Ma non mancano segnali che vanno in direzione opposta, riconoscibili nel fastidio di tanti di fronte alla ferocia del linguaggio. C’è da sperare che da questi segnali possa nascere, finalmente, la consapevolezza che solo sul rispetto delle parole si fonda la possibilità di vivere assieme una vita “umana”.
Alberto Conci
(Responsabile scientifico del progetto Atlante di Unimondo)
Scritto tratto da: Cooperazione tra consumatori