Vincere la crisi con le spese militari di guerra?

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Ormai non c’è nessuno in giro che non abbia una ricetta contro la crisi. Tuttavia tra le molte proposte forniteci quotidianamente dagli esperti, ora addirittura dal presidente Obama, c’è un’assenza inquietante. Forse per pudore, o per scongiurarla, non è stata mai ricordata la più rapida, la più efficace, la più usata delle politiche anticrisi: la gestione militare del ciclo economico.

Adottata stabilmente negli Stati Uniti da molti decenni, ha alla base due pratiche complementari: da un lato la distruzione dei capitali degli altri per prenderne i mercati, i campi d’investimento, le materie prime; dall’altro le virtù anticrisi della spesa pubblica militare.
Se è vero infatti che si tratta di una crisi di sovrapproduzione – quella finanziaria, come già sapeva Marx, ne è solo il primo segnale – perché le nuove forme di capitale emerse con la cibernetica hanno fondato proprio sull’accelerazione della produzione le ragioni del loro dominio e sull’accelerazione della sovrapproduzione quelle della loro crisi, se è vero questo, l’unico modo per uscirne è una massiccia distruzione di capitali.

È ciò che avviene oggi con una guerra economica contro i capitali più deboli: in Europa contro le periferie rese meno competitive dalla moneta unica. Ed è ciò che avvenne con la prima e con la seconda guerra mondiale: si volevano distruggere i capitali degli altri. Ma, accanto a questo rimedio principale, nel 1941 le classi dirigenti degli Stati Uniti ne sperimentarono un altro, già noto altrove, che praticano con successo ininterrottamente da allora: la spesa pubblica militare. Infatti dopo un decennio di inefficace keynesismo civile, la crisi del ’29 fu finalmente superata con l’ingente riarmo già nei primi mesi di guerra.

Come sostiene Samir Amin, è il keynesismo militare che da allora ha prevalso negli Usa, anche col neoliberismo: non risolve la crisi ma contribuisce a rimandarla, sostenendo l’industria bellica che è il vero motore dell’economia. Tanto che per giustificarlo gli Stati Uniti, dal 1941, tra guerre calde e fredde non ne sono più usciti. «Penso sempre alla guerra» era solito ripetere il presidente Bush. E forse proprio il successo della gestione militare del ciclo economico ha salvato finora dal crollo – considerato inevitabile da Rosa Luxemburg – un modo di produzione contraddittorio come quello capitalistico.

Naturalmente questa gestione militare è una prerogativa da grande potenza. Tuttavia bisogna fare attenzione perché non è detto che qualche media potenza, schiacciata dai debiti, non tenti l’avventura.

Potremmo immaginare cosa succederebbe se un governo italiano volesse provarci: uscirebbe dall’euro, rilancerebbe l’industria bellica con un forte riarmo che riavvierebbe l’intera economia. Ma la gestione militare della crisi lo spingerebbe in operazioni di guerra, come è sempre successo agli Stati Uniti. Potrebbe sfidarli attaccando qualche vicino, magari nuovamente la Libia che ha riserve di petrolio per ottant’anni a due passi da casa, magari in una coalizione con greci, spagnoli, portoghesi e irlandesi pronti a tutto.

Ricetta americana, non più di qualche migliaio di morti e si uscirebbe dalla crisi in pochi mesi. C’è già qualcuno che ci sta pensando seriamente?

Enzo Modugno da Sereno Regis

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