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Un movimento per fermare le guerre e costruire la pace
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di Nanni Salio, direttore del Centro Studi "Domenico Sereno Regis"
La storia sembra ripetersi sempre la stessa: in prossimita' di una guerra, annunciata o combattuta, si creano comitati e movimenti spontanei che cercano di opporsi a una macchina ben oliata, che funziona ventiquattr'ore su ventiquattro, alimentata da un trilione di euro all'anno, tre miliardi al giorno. L'esito e' praticamente scontato: tranne in rari casi, molto particolari, la macchina non si arresta. E' quanto e' successo, ancora una volta, con la guerra di aggressione degli Usa contro l'Iraq, nonostante la straordinaria opposizione di un imponente movimento contro la guerra, forse il piu' grande nell'intera storia umana. Per quali ragioni questo movimento non e' stato in grado di impedire la guerra?
In realta', questa domanda potrebbe essere intesa in un senso piu' ampio. Non c'e' solo la guerra contro l'Iraq, ma molte altre piu' o meno dimenticate o trascurate, che il movimento per la pace non e' stato in grado, e non lo e' tuttora, di impedire o di contrastare con sufficiente
visibilita' ed efficacia (Colombia, Congo, Sri Lanka, Israele-Palestina, Cecenia, e tante altre).
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Obiettivi generali
Si puo' tentare di rispondere a questo angosciante interrogativo individuando gli obiettivi generali che un movimento per la pace dovrebbe proporsi di conseguire e le cause profonde che stanno alla base del fenomeno guerra. Gli obiettivi generali essenziali sono tre, tutti quanti di grande portata e relativi alla struttura del sistema socio-politico nel quale siamo inseriti: trasformare gli attori sociali violenti, trasformare le strutture violente, trasformare le culture violente. Oggi siamo in presenza di attori, strutture e culture violente in un circolo vizioso che si autoalimenta e che occorre spezzare.
A ciascuna di queste tre componenti (attori, strutture, culture) corrisponde una o piu' forme di potere, inteso come dominazione. Gli attori sociali violenti dispongono del potere politico, le strutture violente sono create e mantenute dal potere economico e militare, le culture violente si manifestano attraverso il potere culturale (mediatico, religioso, della tecnoscienza, dell'immaginario artistico, dei miti, dei traumi e della narrazione storica).
Una ipotesi di lavoro dalla quale partire e' che a questi poteri dall'alto occorre contrapporre e/o sostituire il "potere dal basso" fondato sulla nonviolenza. Ma questo potere, che ha una dimensione sia personale, basata sulla "forza interiore", sia collettiva, dev'essere costruito pazientemente, non puo' essere improvvisato.
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Teorie e forme del potere
Mentre le quattro forme principale di potere dall'alto (politico, economico, militare e culturale) sono alimentate costantemente, pianificate e sorrette giorno dopo giorno dal circolo vizioso attori-strutture-culture, nulla di tutto cio' esiste, se non in uno stato embrionale, per quanto riguarda il "potere dal basso". Basti pensare alle dottrine e politiche militari,
sorrette da una gigantesca spesa militare, da un apparato burocratico costituito da decine di milioni di persone che operano a tempo pieno e da un consenso ampiamente generalizzato. Quante sono le persone che operano a tempo pieno nei movimenti per la pace, per esempio in Italia? A essere generosi si possono approssimare a poche centinaia, realisticamente ancor meno. Con quali risorse? Pressoche' nulle. E' pensabile che in questo modo si possano contrastare scelte e decisioni come quelle che hanno portato alla guerra contro l'Iraq? No di certo.
Questo non significa che ci siano facili ricette che si possono costruire a tavolino, con risultati sicuri e immediati. Si puo' tuttavia pensare a un ragionevole insieme di politiche e di iniziative che, in modo sistemico e complesso, possano avviare un processo di inversione di tendenza che puo' portare nel corso degli anni a conseguire risultati apprezzabili.
Un punto centrale che paradossalmente e' stato largamente trascurato e' la critica radicale agli attuali modelli di difesa e di sicurezza e, piu' in generale, la critica alle dottrine militari. Quello che si attiva normalmente su larga scala e' piu' un movimento contro la guerra (una specifica guerra, uno specifico sistema d'armi, come quelle nucleari oppure le mine antiuomo) che un vero e proprio movimento per la pace. Molti di coloro che hanno manifestato contro la guerra di Bush all'Iraq erano al tempo stesso favorevoli a mantenere gli eserciti, senza minimamente essere consapevoli delle dinamiche e delle conseguenze che questa scelta comporta.
E' proprio questa ambiguita' che impedisce di uscire dal circolo vizioso della guerra. Con il nostro assenso a una difesa militare, peraltro altamente aggressiva e offensiva, consentiamo che le elite che governano le grandi potenze proseguano indisturbate nella loro logica di dominio e nella sfrenata corsa agli armamenti, in corso da oltre mezzo secolo. E quando decidono di ignorare e stracciare anche quel poco di accordi e di diritto internazionale che faticosamente si e' riusciti a costruire, ci ritroviamo totalmente impotenti. Ma non siamo innocenti: abbiamo consegnato il nostro potere nelle mani criminali di chi ci governa.
L'alternativa alla difesa militare dev'essere pertanto chiara e netta, anche se nel breve periodo puo' comportare una fase di transizione, di transarmo, un piccolo compromesso che vedra' convivere elementi residuali di un modello di difesa difensiva, ma non offensiva, con il costruendo modello di difesa popolare nonviolenta. Ma al momento questa ipotesi progettuale non e' stata esplicitamente recepita neppure dal movimento per la pace, che rischia di ripetere solo slogan retorici e inefficaci.
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Tecniche e metodi di lotta della nonviolenza politica
Uno dei lavori di riferimento per chiunque voglia comprendere i fondamenti della nonviolenza politica, superando schemi riduttivi e di banale contrapposizione tra i fautori del realismo e i persuasi della nonviolenza, e' quello di Gene Sharp, La politica dell'azione nonviolenta (tre volumi, Edizioni Gruppo Abele, Torino 1986-1997). I punti salienti del lavoro di Sharp sono i seguenti: la nonviolenza politica si basa su una diversa teoria del potere, che ha avuto modo di dimostrare la sua efficacia nel corso della storia in svariati e numerosi casi, in ogni latitudine e sotto ogni tipo di governo, democratico e/o totalitario, compreso il nazifascismo; i casi di studio sono talmente significativi che soltanto una pigrizia intellettuale, un permanere di concezioni teoriche errate, una narrazione storica miope e un insieme di interessi contingenti e limitati hanno impedito sinora che le tecniche e i metodi della nonviolenza si diffondessero piu' di quanto e' gia' avvenuto.
Purtroppo, questa critica vale anche per il movimento per la pace, che sinora non ha saputo fare propria la cultura della disobbedienza civile, del ju-jitsu politico, della noncollaborazione, del boicottaggio e di quella molteplicita' di tecniche (Sharp ne ha classificate ben 198, ma nei trent'anni trascorsi da quando ha pubblicato il suo lavoro se ne sono aggiunte altre) indispensabili per rendere efficace la lotta nonviolenta. La disobbedienza e' "civile" e non "incivile" quando si accetta il prezzo da pagare, anzi quando si fa leva su questo prezzo per scardinare un sistema basato su leggi ingiuste. "Riempire le carceri" e' sempre stata l'indicazione politica dei maestri della nonviolenza, da Gandhi a Mandela. Bloccare i treni che trasportano armi, non pagare le tasse che servono per finanziare la guerra e l'apparato bellico, non accettare leggi ingiuste come la Bossi-Fini sull'immigrazione, richiedono il coraggio e la determinazione della disobbedienza creativa, che puo' mettere in difficolta' estrema anche il potere apparentemente piu' forte e monolitico e farlo cadere come un fragile castello di carte.
Ma la scansione delle azioni dev'essere organizzata, pianificata, gestita politicamente secondo tempi e modalita' che permettano di continuare la resistenza e la disobbedienza su tempi lunghi. Gli esempi storici delle lotte guidate da Gandhi e da Martin Luther King sono emblematici a tale
riguardo.
Il movimento per la pace e' stato capace sinora di agire solo sui primi livelli dell'azione, quelli della sensibilizzazione, delle manifestazioni dimassa, ma non e' riuscito a passare alla fase successiva della disobbedienza. Per far questo e' necessario un impegno continuativo di formazione all'azione diretta nonviolenta, come e' avvenuto nei casi migliori della storia dei movimenti (1). Solo cosi' potremo sperare di avere gruppi di attivisti capaci, preparati e pronti a intervenire tempestivamente e coerentemente secondo le tecniche della nonviolenza. Tutto cio' non si improvvisa all'ultimo momento.
Per raggiungere questi obiettivi, ambiziosi e impegnativi ma tutt'altro che irrealistici, il movimento deve affrontare anche due altri ordini di problemi interni:
1. la totale carenza delle strutture logistiche e organizzative, da consolidarsi mantenendo una rigorosa indipendenza rispetto alle forze politiche partitiche, pur nella ricerca di un costante dialogo aperto di confronto e di critica costruttiva;
2. democrazia interna, partecipazione, modalita' decisionali consensuali, ruolo crescente della componente femminile, autogestione.
Dal punto di vista organizzativo, la forma migliore e' probabilmente quella di una struttura a rete, decentrata ma stabile, che consenta al tempo stesso di valorizzare la grande ricchezza delle diversita' ("uniti e diversi") e di condurre un'azione politica incisiva e attiva (anzi pro-attiva), non soltanto spontaneista e reattiva, che superi le emergenze e duri nel tempo, capace di elaborare progetti, realizzare esperienze, produrre cultura della nonviolenza e trasformare man mano la realta'. Occorre radicarsi stabilmente nei luoghi, essere tenaci e determinati, progettuali e creativi. Moltissime esperienze in corso permettono gia' di intravedere che cosa intendiamo per societa' nonviolenta e quali sono le direzioni verso le quali dobbiamoì procedere, ma non abbiamo ancora raggiunto una massa critica sufficiente per conseguire risultati piu' stabili e visibili.
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Paradossi e limiti della democrazia
Ci sentiamo sovente dire che la nonviolenza e' possibile ed efficace solo nei contesti democratici. Questo non solo non e' vero, come dimostrano molteplici casi storici (resistenza civile al nazifascismo, caduta di regimi dittatoriali nelle Filippine nel 1986 e nell'Europa dell'Est nel 1989), ma siamo ormai in presenza di un evidente paradosso: e' molto piu' difficile
lottare dentro una democrazia che non contro un potere dittatoriale (2). Intendiamoci, e' vero che nella democrazia ci sono spazi e margini di manovra che, in prima istanza, sembrano piu' facili da attivare. Ma i risultati sono spesso modesti, quando non addirittura nulli. Proteste su larghissima scala come quelle del 15 febbraio 2003 che hanno coinvolto decine di milioni di cittadini/e non hanno impedito che il potere politico si comportasse con la ben nota tecnica del "muro di gomma".
Analogamente, per i principali problemi che abbiamo di fronte (dalla poverta' di massa agli squilibri ambientali, dalla crescente disoccupazione e precarizzazione ai drammi dell'immigrazione) i poteri dominanti presenti nelle democrazie si comportano seguendo strategie ben note, che di fatto stanno svuotando la democrazia del suo piu' autentico significato. Un 20%
della popolazione e' in grado di conseguire un risultato elettorale vincente, contro un altro 20% che vi si oppone e un 60% per lo piu' indifferente, terreno di caccia per gli indispensabili margini di manovra.
Come e' stato brillantemente evidenziato da vari autori (3), le democrazie occidentali stanno diventando sempre piu' delle oligarchie, capaci di rendere inefficace la protesta e il dissenso, se questo si limita alle forme piu' tradizionali di azione e non sa compiere il passaggio verso la disobbedienza civile. La trappola e' ben congegnata: se l'oppositore ricorre alla violenza, viene schiacciato e messo nell'angolo; se invece si limita alla protesta verbale, la sua azione risulta inconcludente. L'alternativa necessaria e possibile e' la disobbedienza civile su larga scala, organizzata nella forma della resistenza, dell'obiezione e del boicottaggio.
A tutto cio' occorre aggiungere la capacita' di elaborazione di un programma costruttivo basato sul cambiamento delle strutture di potere militare, passando dalla difesa armata a quella nonviolenta, e delle strutture economiche trasformando l'attuale folle e distruttivo modello della crescitaì e dei consumi illimitati in un altro basato sulla scelta della semplicita' volontaria e sulla riscoperta di stili di vita che ci permettano di vivere in maniera piu' ricca, intensa e armoniosa le nostre relazioni intra e inter-personali. Sono cambiamenti parzialmente gia' in corso, che bisogna sostenere, rendere visibili, tradurre anche in programmi politici.
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Una modesta proposta: una politica del 5%
Quando si delineano scenari globali, si rischia di cadere in una sindrome di disperazione che e' bene contrastare osservando che il bicchiere non e' mai tutto pieno o tutto vuoto, ma di solito mezzo pieno e mezzo vuoto. Accanto alle denunce, e' necessario vedere e far conoscere le molteplici esperienze positive in corso in ogni angolo del mondo. Stanno crescendo la quantita' di persone, i movimenti, le iniziative, la cultura, la sensibilita' di coloro che si rendono conto che un mutamento e' possibile, oltre che necessario. Ci sono tutte le premesse e forse stiamo gia' assistendo agli "ultimi giorni dell'impero americano", come recita il titolo di un bel libro di Chalmers Johnson (Garzanti, Milano 2001, e ristampa aggiornata 2003). E' una tesi condivisa da molti altri autorevoli studiosi, tra cui Immanuel Wallerstein (4), Johan Galtung (5) e il gia' citato Emmanuel Todd. Perche' questa transizione avvenga, c'e' bisogno che l'attuale struttura imploda e si dissolva, il meno violentemente possibile, come e' implosa l'altra superpotenza, dopo la straordinaria stagione di lotte nonviolente del 1989.
Non abbiamo bisogno di superpotenze, se non di quella disarmata e nonviolenta del movimento per la pace transnazionale.
Un obiettivo minimo ma concreto di questo movimento puo' essere quello di una politica "del 5%": proporre alle forze politiche, nelle prossime tornate elettorali, la riduzione delle spese militari del 5% all'anno per tutta la legislatura, con l'utilizzo di queste risorse per la costruzione di una alternativa nonviolenta (corpi civili di pace, forze nonviolente, caschi bianchi) e in parallelo la riduzione programmata annua del 5% dei consumi di energia fossile (in particolare il petrolio) con la crescita, nella stessa misura, della produzione di energie rinnovabili.
In una sola legislatura otterremmo risultati concreti e straordinari, che ci avvicinerebbero a traguardi ancora piu' ambiziosi. Ma troveremo una forza politica che abbia il coraggio di assumere un simile programma? Sta al movimento per la pace attivarsi perche' tale proposta non rimanga nel cassetto dei sogni.
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Note
1. Si veda ad esempio il sito www.ruckus.org curato dalla Ruckus Society, uno dei gruppi internazionali piu' specializzati in questo campo.
2. Si vedano in proposito le riflessioni di Brian Martin, Nonviolence versus capitalism, www.uow.edu.au/sts/bmartin/pubs/01nvc
3. Si veda in particolare Emmanuel Todd, Dopo l'impero, Marco Tropea, Milano
2003.
4. Il declino dell'impero americano, www.iai.it/pdf/Wallersteintrad5.PDF
5. The fall of the empire, www.transcend.org