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Un immenso territorio comune di analisi e azione
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Foto: Lindsey LaMont da Unsplash.com
Le parole sono lame d’erba che, attraversando gli ostacoli, germogliano sulla pagina; lo spirito delle parole che si muove nel corpo è concreto e palpabile come la carne; la fame di creare è altrettanto materiale quanto le dita e la mano. Questa citazione di Gloria Anzaldúa, tratta da Borderlands/La Frontera: The New Mestiza, ci pare possa prestarsi bene a introdurre una lunga e densa intervista con Silvia Federici, filosofa femminista italo-statunitense che non dovrebbe aver bisogno di presentazioni su queste pagine. La chiarezza e la profondità delle sue parole produce e riproduce germogli infiniti nell’energia vitale, nell’elaborazione dei saperi e nella concretezza dei corpi dei movimenti femministi e in ogni altro movimento anticapitalista. Lo fa ovunque e da molti decenni. La conversazione, raccolta da Melissa Cicchetti in occasione della IV edizione della Scuola Femminista dell‘Assemblea Moza d’Asturies, tenuta in Spagna nell’estate scorsa, ne è un esempio illuminante.
La sua vita spazia dalle lotte degli anni ’70, in Italia, alle campagne per il salario domestico, a New York, dalle denunce dei piani di aggiustamento strutturale in Africa alla critica al processo di globalizzazione neoliberista e ai suoi effetti in tutto il pianeta, dal movimento per il recupero dei commons fino al più recente ciclo di lotte, iniziato nel 2011 e poi continuato con l’ultima ondata femminista. In altre parole, Silvia Federici ha trascorso decenni coniugando militanza e riflessione e, così facendo, ci ha fornito le chiavi per pensare e comprendere il nostro presente. È stata lei a chiudere, nello scorso luglio, con una conferenza online la IV edizione della Scuola Femminista dell‘Assemblea Moza d’Asturies, in Spagna. Autrice di “Calibano e la strega” e “Il punto zero della rivoluzione”, Silvia è una delle teoriche più importanti e riconosciute del femminismo anticapitalista, con una lunga storia di attivismo e riflessione. Adesso che il movimento femminista internazionale sta attraversando un momento di forte discussione interna, torniamo a conversare con lei sul momento politico che stiamo vivendo.
Partiamo dal passato più recente del movimento femminista, che è stato un periodo di protesta, mobilitazione e rivendicazione sociale molto ampio e di massa. Come leggi e come pensi che dovremmo leggere questa “crescita politica” a fronte di un presente forse fino a oggi un po’ meno attivo? E come possiamo pensare, oggi, al movimento femminista?
Per prima cosa devo dire che non sono sorpresa dalla grande crescita del movimento femminista a livello internazionale. Teorizzo da tempo – insieme ad altre compagne, come Mary Miss e Verónica Gago – che il movimento femminista potenzialmente, cioè in potenza, sia il movimento più importante. Lo è perché lotta nel territorio più importante della trasformazione sociale, che è quello della riproduzione sociale. Fin dal principio, il femminismo si è focalizzato sull’analisi della riproduzione sociale come l’insieme delle attività fondamentali per la riproduzione della vita nel sistema capitalista. In questo senso, la perpetuazione della società capitalista è più importante della procreazione, della cura, della salute, dell’educazione e di ogni formazione culturale. Come ha detto più volte Verónica Gago insieme alle compagne di Ni una Menos, la riproduzione non è l’equivalente della produzione. Tutto il contrario: la riproduzione è qualcosa di molto più ampio. È l’insieme delle attività che costituiscono la condizione di possibilità della perpetuazione del mercato del lavoro. La lotta, quindi, non è altro che il territorio in cui diventa possibile unire diversi movimenti, riunire diverse dispute. Quel territorio è la lotta femminista. Questo è esattamente ciò che la lotta femminista ha dimostrato a livello internazionale: il femminismo, inteso come protesta contro l’oppressione e la discriminazione delle donne, è molto maturato nella sua analisi e, nella pratica, ha permesso il sorgere di molte più rivendicazioni. Negli ultimi decenni abbiamo capito che non è possibile cambiare la situazione delle donne nel mondo senza cambiare il mondo stesso. Il femminismo di oggi ha ormai questa consapevolezza, sa che come donne e come dissidenti sessuali non possiamo migliorare la nostra condizione senza cambiare il sistema sociale capitalista che si basa su una logica di guerra, violenza, sfruttamento del lavoro e della natura. In sostanza, non possiamo cambiare la nostra condizione senza lottare contro il sistema capitalista in tutte le sue forme.
E come possiamo spiegarne la crescita politica degli ultimi anni?
Credo che la crescita politica degli ultimi anni sia dovuta soprattutto al fatto che la crisi del sistema capitalistico è diventata sempre più evidente. Potremmo parlare del perché si verifica questa crisi, ma è evidente che la crisi del capitalismo si sta facendo più profonda. Abbiamo un capitalismo sempre più violento, che fomenta la militarizzazione della vita, l’intensificazione dello sfruttamento del lavoro e della natura e l’espropriazione della terra. Viviamo ormai in un presente terrificante in cui migliaia e migliaia di persone sono costrette a lasciare i loro luoghi ancestrali affinché diventino terre utili e produttive per il capitale. La risposta a questa guerra e a questo sistematico attacco internazionale contro la vita e la sua riproduzione è venuta dalle donne. Sono le donne che lottano in prima linea contro la distruzione dell’Amazzonia e dell’Africa, come sono le donne che lottano contro il taglio degli alberi e contro le compagnie minerarie e petrolifere. Si rendono conto che l’arrivo di una impresa mineraria comporta il fatto che ci sia mercurio nell’acqua e che questo significa la fine della loro comunità. Credo che l’essere il soggetto principale della riproduzione sociale abbia reso le donne le più coinvolte nella lotta contro quelle politiche che distruggono la vita e ne impediscono la riproduzione. Oggi questa è la questione fondamentale della politica internazionale.
Da tempo hai messo in luce gli alti costi della riproduzione sociale del sistema capitalista per le donne: come ci ha colpito e ci colpisce questa imposizione?
Fin dall’inizio del movimento femminista, con molte donne, abbiamo denunciato, in tanti modi e con molte parole, il significato di questa imposizione sulle donne nella società capitalista, che implica il farsi carico della cura e della riproduzione della vita. Abbiamo messo in chiaro che questa imposizione ha generato un lavoro svalutato, non retribuito, senza orari né pensione. Credo, tuttavia, che sia importante anche dire che questa imposizione ci ha dato molta conoscenza: non è un caso che oggi le donne siano quelle più consapevoli della fragilità e del valore della vita, della trama di relazioni che la sostengono e ci permettono di andare oltre l’individualismo. Detto in altri termini, dell’importanza di costruire comunità. Ebbene, credo che questi due siano i temi al centro del femminismo: la lotta alla devastazione capitalista, coloniale e razzista e la capacità di pensare un’alternativa e praticarla dal presente, dalla nostra vita quotidiana. Pensare a questo, nella pericolosità dell’attuale situazione politica internazionale, nella quale troppe persone affrontano costantemente la morte, mi riempie di speranza. In questo contesto, la crescita del movimento femminista e della sua capacità organizzativa internazionale non è cosa da poco. Negli ultimi anni, in modo particolare, il movimento femminista ha dimostrato la grande capacità di creare alleanze per l’internazionalizzazione dello sciopero: dall’Argentina all’Europa si è gridato allo Stato: “lo stupratore sei tu”. La tecnologia ci ha aiutato a comunicare tra noi, ma questa grande capacità deriva, credo, dalla coscienza che le donne si trovano ad affrontare, in modi molto diversi, i problemi fondamentali della politica internazionale contemporanea. Le nostre vite dipendono da come si deciderà di risolverli.
Parli spesso di sperimentazione: cosa significa? Pensi che il nostro presente sia o possa essere un momento di sperimentazione?
Il mio concetto di sperimentazione nasce dall’idea che non possiamo più pensare al cambiamento sociale come a un compito per il futuro. Penso, per capirci, al concetto di “rivoluzione” della sinistra tradizionale, che considera la rivoluzione come qualcosa di molto lontano dal nostro presente, come qualcosa che non arriva mai. La mia idea di sperimentazione, un tema che ritengo molto importante per la pratica femminista, arriva a dire il contrario: la rivoluzione è oggi, il cambiamento si fa oggi. Non possiamo continuare a lottare contro tutto senza costruire qualcosa di positivo, non possiamo lottare solo organizzando proteste. Dire “No” è essenziale, scendere in piazza e opporsi è fondamentale, ma non possiamo limitarci a questo. Dobbiamo iniziare a costruire e dobbiamo farlo in comune. Dobbiamo cambiare il nostro modo di vivere quotidiano sperimentando nuovi modi di fare comunità, che è la condizione stessa della nostra lotta. Quando parliamo di costrure i commons, non lo facciamo solo pensando a un futuro comunitario, lo facciamo a partire dalla convinzione della necessità di farlo adesso. Dobbiamo cominciare ora a cambiare le condizioni di riproduzione della vita. Per potersi riprodurre, il capitalismo ci ha diviso, individualizzato e atomizzato. Leopoldina Fortunati lo spiega molto bene: il capitalismo ci univa nelle fabbriche e ci divideva nella vita, basata sull’individualità. Questa idea della nostra casetta separata dalle altre, del nucleo familiare che pulisce la biancheria sporca a casa sua, della dimensione privata che fa a pezzi le relazioni tra vicini è ciò che dobbiamo rompere. Negli ultimi anni lo abbiamo detto forte e chiaro: andremo ad abbattere i muri. Per me questo è stato uno dei contributi più importanti del femminismo, vale a dire mettere sul tavolo la necessità di stare insieme e condividere i nostri problemi.
E come possiamo mettere in pratica questo apprendimento?
Il femminismo, fin dal suo nascere, ha capito che non possiamo lottare senza cambiare la nostra vita quotidiana e senza socializzare la nostra sofferenza e le nostre paure. Molto importanti sono stati i gruppi di autocoscienza. Quando le donne hanno cominciato a parlare e a raccontarsi le loro paure, i loro sensi di colpa, le loro sensazioni di non valere niente, si sono rese conto che condividevano tutte gli stessi problemi. Si sono rese conto che non si trattava dei problemi di ognuna di loro, che quelli erano problemi strutturali. I gruppi di autocoscienza ci hanno permesso di capire che il problema non eravamo noi, non erano i nostri corpi o le nostre menti, il problema era la società. Pertanto, ciò che era necessario allora, e continua ad esserlo adesso, è cambiare la società, non cambiare noi stesse. Abbiamo una grande capacità di socializzare e di mettere in comune i nostri problemi, ora dobbiamo cambiare l’organizzazione della riproduzione quotidiana, creare momenti condivisi a partire dalla cura, come ad esempio si fa con gli orti urbani...