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Tunisi, la grande attesa
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Siamo al passaggio decisivo. Dalle languide pigrizie di Sidi Bou Said, agli altari di carta di Hammamet e delle sue vuote suggestioni; dai sussulti generosi della Capitale, ai preventivi essenziali -financo gelidi- della Sfax industriale; fino alle atmosfere lunari di quei territori di sabbia, che si muovono col medesimo passo del vento, al di là di Tozeur: ovunque, la lunga cavalcata della transizione alla democrazia volge al termine. Poche settimane ancora: poi, l’esito delle tanto sospirate “presidenziali”. Le prime sotto l’egida di una nuova sovrana, spesso esigente, talvolta crudele: Libertà. È l’ultimo passo di un cammino intrapreso (quasi) quattro anni fa: era il 4 Gennaio 2011; la voglia di cambiare ardeva nei cuori, come il fuoco ardeva sulla pelle di Mohamed Bouazizi: prima vittima della Rivoluzione, ultima vittima di una disperazione che covava carsica, sotto quella sabbia dorata, di cui anzi si diceva: la sabbia del Sud, dei suoi modi spediti e senza fronzoli. Dei suoi intrecci politici e tribali. Un cammino; o meglio ancora un viaggio, con le sue scoperte e i suoi smarrimenti, le sue esaltazioni e le sue stanchezze: la fuga ingloriosa dell’(ormai) ex presidente Ben Alì, il 14 Gennaio 2011; i vili attentati a capi dell’opposizione laica come Chokri Belaid-il 6 Febbraio 2013- e Mohamed Brahimi -il 25 Luglio dello stesso anno-; l’adozione di una sorprendente Costituzione, secolare e liberale -il 10 Febbraio 2014-; le recenti elezioni politiche, del 26 Ottobre. Infine, il primo turno delle presidenziali, il 23 Novembre scorso. Tanti passi che, come s’è detto, conducevano a quest’ultimo: il ballottaggio, la scelta decisiva, che avverrà il 14, il 21 o il 28 Dicembre. A seconda dei ricorsi minacciati da alcuni candidati. Un finale che, probabilmente, sarà anche (e soprattutto) un inizio.
La prima tessera del domino deve ancora cadere: l’affermazione dei laici di Nida Tounes, alle fresche elezioni parlamentari -85 seggi, contro i 69 del principale contendente: il partito filoislamico Ennahda- ha infatti prodotto un effetto collaterale, in buona misura inatteso: l’improvvisa risacca del furore comunicativo (precedentemente) manifestato dal Partito confessionale di Rached Ghannouchi. Quest’ultimo, a seguito della dolorosa ferita elettorale, ha deciso di sparire dal radar della proposta politica, giungendo al punto di non indicare un proprio candidato alla presidenza della Repubblica e lasciando, perciò, libertà di voto al proprio elettorato. Fatto curioso per una forza che deteneva, fino a un mese fa, la maggioranza relativa dell’Assemblea legislativa. Il ripiegamento non deve però ingannare: non si tratta di tanto di resa, quanto di rivoluzione tattica. I vertici di Ennahda sanno, infatti, che il risultato delle politiche non va inteso come un trionfo delle istanze laiche su quelle religiose -benché segni un punto a favore di forze come il Sindacato dei lavoratori, l’associazionismo femminile e l’Ordine degli avvocati, che di quella cultura sono il nerbo-, bensì come sanzione all’incapacità di governo dei propri uomini: fatto grave, ma potenzialmente transitorio. Allora, meglio seminare il terreno del futuro, con un’azione di basso profilo, che sacrifichi la suprema Magistratura all’altare di un riassetto silenzioso. E, magari, a quello di un gabinetto governativo concordato, e non troppo sgradito. Se poi giungesse, sullo scranno più alto, un Presidente “amico” -eventualità non da escludere, a seguito del sorprendete 32% ottenuto al primo turno dal presidente uscente Marzouki, col probabile sostegno della stessa Ennahda-: tanto di guadagnato. Anche perché gli orizzonti sono pieni di promesse, ora che la vittoria dei laici somiglia sempre più ad una riedizione -per ora presentabile- del sistema di potere prerivoluzionario.
Il vecchio regime è morto, viva il vecchio regime! Pare essere questo il motto della nuova classe dirigente. Forsanche di qualche cancelleria internazionale, preoccupata da un possibile allargamento del pantano libico. Le liste dei partiti “secolari” sono colme, giustappunto, di seconde e terze dell’ancien règime. È notizia di pochi giorni fa il ritorno in Patria di Slim Chiboub, genero del deposto Presidente, e notabile di prima importanza alla “corte” di Carthage. Lo stesso Caid Essebsi, guida di Nida Tounes e, secondo molti analisti, presidente in pectore della Repubblica -per via del 39% ottenuto alla prima votazione- ha ricoperto, in passato, ruoli non secondari: sotto Bourguiba e (nondimeno) sotto Ben Alì. Vale un discorso non dissimile per Mustapha Kamel Nabil: ex governatore della Banca centrale tunisina, in odore d’insediamento sullo scranno più alto del Governo. Insomma: abiti nuovi, modi antichi. Tanto che sembra profilarsi una lunga contesa fra interpreti di un pericoloso gattopardismo (i laici di Nida Tounes) e protagonisti di un altrettanto pericoloso dialogo col radicalismo (i filoislamici di Ennahda); una contesa che ricorda da vicino il bipolarismo imperfetto del cinquantennio Dc/Pci. L’unica speranza è che, pur non essendoci nulla di più vecchio del nuovo, ci sia almeno del nuovo nel vecchio. La Tunisia è in attesa. La Tunisia è attesa.