Tra Europa e Paesi arabi: l'importanza della "questione femminile"

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La legge di Dio. Dev’esserci qualcosa di magico nelle successioni ereditarie. Qualcosa che interroga le coscienze nel profondo, a dispetto dell’apparente aridità del codice civile. Ne è una perfetta dimostrazione il dibattito politico tunisino di queste settimane, in cui la famigerata eredità ha abbandonato l’ambito angusto di tribunali e studi notarili, per posarsi sulle labbra della massima autorità religiosa del Paese: Othman Battikh, “Mufti della Repubblica”. Uomo anziano, autorevole, con un pizzetto bianco e una perenne aria di rimprovero, appena mitigata da qualche sorriso bonario. Le sue parole, affidate alla frequenza radio Mosaïque FM, non lasciano grande spazio alle interpretazioni: «È la legge di Dio e non può essere cambiata, così come 1 più 1 fa 2, senza che si possa dire che fa 3 o 6. Oggi, ma anche fra un po’ di tempo, o perfino fra anni, questi saranno sempre i versetti del Corano e non li potrete cambiare. Mai». Il destinatario del messaggio? Il deputato indipendente Mehdi Ben Gharbia, depositario di una proposta di legge - protocollata il 4 Maggio 2016 - che delinea una completa parificazione dei sessi in campo ereditario. Un tabù infranto. La risposta a un ritardo cui neanche una legislazione progressista come il Codice dello Status Personale aveva saputo porre rimedio. Così, in Tunisia come nel resto dei paesi arabi, la porzione di eredità riservata alle donne rappresenta la metà di quella spettante agli uomini. Una chiara infrazione del principio, proclamato dalla Costituzione del 2014, secondo cui «cittadini e cittadine sono eguali in diritti e doveri davanti alla legge». Adesso, la speranza delle donne tunisine - e di chiunque abbia a cuore la parità dei diritti - ha fatto capolino fra gli atti del Parlamento, racchiusa in un progetto di legge. C’è, e non si può far finta di non vedere. Ma una cosa deve essere chiara: il provvedimento camminerà in salita.

Classifiche e sorprese. Di certo l’Europa è più avanti in termini di eguaglianza fra sessi e il confronto con la sponda sud del Mediterraneo può sembrare ingeneroso, se non azzardato. Ciononostante, stando ai dati e forse anche all’esperienza, l’ambiente sociale non favorisce la piena parità neanche alle nostre latitudini. Secondo il più recente World Gender Gap Report -lo studio del World Economic Forum che fotografa lo stato dell’emancipazione femminile nei diversi paesi- Ruanda e Filippine si pongono ben al di sopra di nazioni come la Germania, la Francia e la Spagna. L’Italia, peraltro, deve accontentarsi di un umiliante quarantunesimo posto. Basta elencare alcuni dei criteri posti alla base di questa ricerca internazionale, divenuta un punto di riferimento in questo settore, per rendere ancor più esplicito il problema: facilità di accesso alle cariche pubbliche, grado di istruzione, parità di salario. Una cosa è chiara: al netto dei limiti di queste classifiche, abbiamo ancora molta strada da fare. Tanto che perfino il Pontefice è intervenuto sul punto, in un suo recente discorso, definendo «uno scandalo la diversità di retribuzione».

Una questione da cui dipende il futuro. Ma il vero problema è a monte: le cosiddette “pari opportunità” vengono spesso avvertite come un capitolo residuale del dibattito politico. Un tema poco incisivo, da affrontare solo in presenza di un’ideale combinazione: maggioranza stabile e assenza di provvedimenti più urgenti. Eppure, la questione evoca un principio cardine del nostro sistema democratico: l’eguaglianza fra i cittadini. In una fase di profonda crisi della democrazia, in cui le conquiste sociali sembrano venire meno e i modelli di rappresentanza appaiono insufficienti, ricalibrare un diritto fondamentale come l’assoluta parità di trattamento, a prescindere dal genere, può rivelarsi un elemento di rilancio. Uno strumento di distinzione rispetto agli ordinamenti che non la riconoscono o che la riconoscono solo parzialmente. Un polo di attrazione per chiunque condivida un modello civile di questa natura e un faro per i paesi vicini, che favorisca lo sviluppo di una pacifica “area dei diritti”. L’Europa, insomma, può essere -per certi versi deve essere- il centro di diffusione di un’idea di convivenza diversa e vincente, che dia il via a una competizione fra tutele giuridiche, che si ponga al fianco della consueta competizione fra sistemi economici e tecnologie. Anche perché la parità di genere può dimostrarsi un volano per la crescita economica, con una distribuzione delle ricchezze più equilibrata e funzionale alla gestione delle famiglie. Certo, molti punti vanno dibattuti con serietà e con la piena rinuncia a ogni forma di rimozione. Uno su tutti, non può non essere affrontato: la difficoltà rappresentata dalla maternità, in termini di progressione e continuità di carriera. Qui, va abbandonato un certo modo di intendere la paternità. E non solo sulla carta. Su questo terreno, l’Italia -che pure ha molti passi da fare rispetto ad altre nazioni- può giocare una partita importante. Siamo un Paese che ritrova se stesso, e riesce a ritagliarsi un ruolo a livello internazionale, quando si fa promotore di grandi battaglie, come in occasione della moratoria universale della pena di morte, nel 2007.

Omar Bellicini

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