Test elettorale in Francia: Partito Socialista vs Fronte Nazionale

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Il Front National non ce l’ha fatta. Nelle elezioni che si sono tenute ieri nel Dipartimento del Doubs, nella Francia centro-orientale, per riassegnare il seggio del neocommissario europeo Pierre Moscovici, il socialista Frédéric Barbier ha avuto la meglio per un pugno di voti su Sophie Montel, la quarantacinquenne candidata del FN e già eurodeputata. Il testa a testa ha restituito infine a Barbier un 51,5%, assegnando la vittoria ai socialisti. Un secondo turno frutto del voto della domenica precedente che aveva solo eliminato dal confronto l’uomo dell’UMP di Sarkozy, Charles Demouge, demandando la designazione del seggio al ballottaggio. Nonostante l’Unione per un Movimento Popolare (UMP), il partito moderato di centro-destra uscito sconfitto dalle urne, non abbia dato una indicazione di voto ai suoi elettori, in un inedito “né né” che rompe il consueto voto di unità repubblicana nel caso di ballottaggio di un socialista o di un gollista con un candidato del FN, i socialisti hanno optato per non indicare il simbolo del partito sulla scheda elettorale così da presupporre un’accoglienza ben più vasta dei votanti. L’elezione di Barbier appariva in ogni modo favorita dalla tradizione socialista del Dipartimento di Doubs. Un elemento messo però in dubbio dai risultati del primo turno delle elezioni, con il Partito Socialista che non era andato oltre il 28.85%, superato di alcuni punti percentuali dal Front National che aveva ottenuto il 32.60% dei voti.

Ininfluente appare oggi, alla luce dei risultati elettorali, l’indicazione della scheda bianca o del non voto da parte dell’UMP: il forte astensionismo registrato nel primo turno, peraltro piuttosto usuale in una elezione suppletiva, con la partecipazione del 34,45% degli aventi diritto, è stato in parte ridimensionato al ballottaggio con una affluenza pari al 43,49%. Inoltre il noto voto di unità repubblicana appare non solo formalmente venuto meno: senza il supporto degli elettori di centro-destra non si spiegherebbero i numeri ottenuti dal FN. Sebbene quest’ultimo sia riuscito ad attingere a un bacino di voto segnato dalla crisi della Peugeot Citroën e dallo smantellamento della storica fabbrica automobilistica della regione che una volta impiegava 42mila operai e oggi ne registra meno di 15mila, il suo successo non può essere attribuito solo alle contingenze del territorio. Dopo l’incredibile esito elettorale registrato alle europee del maggio dello scorso anno quando il FN ottenne il 25% delle preferenze nazionali, la continua ascesa del partito di estrema destra francese non desta più sorpresa. Un aumento delle fila del partito appare probabilmente connesso agli attacchi terroristici subiti da Parigi a gennaio; in realtà la buona gestione della crisi avrebbe accresciuto anche il livello di consenso del presidente Hollande e del Partito Socialista, passato dal 13% dei mesi passati al 40% di oggi, al pari del dato di due anni fa quando fu eletto. Una ragione in più perché il ballottaggio di Doubs abbia rappresentato un primo test elettorale per il governo e per l’opposizione dopo i fatti del Charlie Hebdo.

In attesa della prossima sfida elettorale, l’affermazione del FN si misura anche attraverso una presenza sempre più massiccia della sua leader sul piano nazionale e internazionale. Nonostante il mancato “invito” a partecipare alla marcia che l’11 gennaio ha sfilato per le strade di Parigi a rappresentare l’unità della Repubblica, Marine Le Pen è in continua ascesa e secondo alcuni sondaggi sarebbe destinata ad arrivare in testa al primo turno delle presidenziali del 2017. Le ragioni stanno nella capacità di parlare “alla pancia” dei francesi, di abbandonare una dichiarata collocazione politica a destra o a sinistra, di attaccare le storture del sistema, di mettere in guardia contro la minaccia islamica o contro gli attacchi alla sovranità nazionale che vengono da Bruxelles: una presa di posizione dunque più “civile” e accattivante, meno xenofoba del padre Jean-Marie, fondatore del Front National, ma altrettanto violenta nel momento in cui si stigmatizzano i musulmani e “si gioca” con le paure delle persone.

L’operazione di “ripulitura” del FN non sembra però essere stata apprezzata da tutti, anche fuori dalla Francia. Invitata a intervenire lo scorso giovedì a un dibattito alla Oxford Union Society, prestigioso ente che da quasi due secoli organizza frequenti incontri con ospiti di ogni tipo ed estrazione politica, Marine Le Pen è stata fortemente contestata fuori dalla sala che ospitava l’incontro e sui social network dalla Oxford Unite Against Fascism e da analoghe organizzazioni britanniche. Gli striscioni dei manifestanti con la scritta “Le Pen... never again” (“Le Pen... mai più”) si sono uniti a canti della tradizione antifascista, e hanno seguito la petizione di 300 tra professori dell’Università di Oxford, studenti e cittadini che hanno chiesto la sospensione della serata per non “contribuire a un clima di islamofobia che incoraggia i razzisti e il razzismo”. La difesa della libertà di espressione induceva altrettante persone a contestare i manifestanti, pur dichiarando in molti la profonda avversione verso il pensiero della Le Pen.

Il timore che quel discorso, come altri, della leader del Fronte Nazionale francese possa incitare all’odio razziale o religioso, o anche fare apologia del fascismo, induce a freddo piuttosto a riflettere sull’opportunità di invitarla a intervenire. Una sottile linea separa la libertà di espressione dall’affermazione di posizioni razziste e negazioniste, una linea che non dovrebbe essere mai oltrepassata per non dare legittimazione a queste tesi. Marine Le Pen non è estranea a reazioni di questo genere: una analoga protesta si era avuta a Cambridge nel febbraio 2013 quando la politica era intervenuta a un dibattito pubblico alla Cambridge Union.

Contestati furono anche gli inviti del presidente dell’Iran Ahmadinejad a intervenire alla Columbia University di New York nel 2007 o di Papa Benedetto XVI a inaugurare l’anno accademico all’Università La Sapienza di Roma nel 2008. Due eventi che hanno spaccato la società statunitense e italiana sulla sua opportunità o meno, e sui timori circa i contenuti del discorso che avrebbero potuto smentire i principi dell’istituzione che aveva emesso l’invito, la democrazia e la laicità.

Miriam Rossi

Miriam Rossi (Viterbo, 1981). Dottoressa di ricerca in Storia delle Relazioni e delle Organizzazioni Internazionali, è esperta di diritti umani, ONU e politica internazionale. Dopo 10 anni nel mondo della ricerca e altrettanti nel settore della cooperazione internazionale (e aver imparato a fare formazione, progettazione e comunicazione), attualmente opera all'interno dell'Università degli studi di Trento per il più ampio trasferimento della conoscenza e del sapere scientifico.

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